Si discute da qualche giorno di socialismo. Ci sono stati interventi di peso sui giornali di questi giorni, ma qualcosa di importante ancora manca nella discussione pubblica. Non serve a molto oggi dilungarsi sugli aspetti esclusivamente teorici, su ciò che si intende quando si parla di socialismo. Fare teoria è sempre utile, ma si rischia, specialmente nell’urgenza della situazione internazionale attuale, di perdere di vista l’hic et nunc, si rischia di dimenticare che la teoria ha da misurarsi con la sua realizzazione, con le tracce che essa ha impresso nella storia. È indubbio che solo un folle oggi potrebbe andare orgoglioso di quello che la storia ci ha lasciato sotto il nome di socialismo. Niente è da salvare della terrorizzante realtà sovietica e del modo di intendere la politica con cui essa costrinse molte realtà sotto il proprio giogo. Gli esperti sanno però che se esiste un mondo di distinzioni, divisioni, rivoli minoritari, un mondo di scissioni e anche di settarismi, quello è, appunto, il mondo socialista. E se il mondo socialista è tristemente una antologia di realizzazioni devastanti, realizzazioni che hanno portato devastazione sociale e politica, mancano a questo appello però un paio di nomi: quelli di Rosselli e Fortuna. Solo pensando a loro si può oggi parlare di socialismo vivo. Degli altri, delle altre forme che sono nate da una certa idea, da una visione che ha portato a totalitarismi in nulla diversi da quelli fascisti e nazisti, a questi occorre pensare come a dei pezzi della storia, come a delle realtà nefaste, da intendere e da indagare insieme a tutti gli altri regimi dittatoriali che, non a caso, hanno visto la loro realizzazione nel Novecento.
L’impegno di Carlo Rosselli nel suo intendere il “Socialismo liberale” partiva non a caso da una critica serrata all’approccio marxista, all’approccio dogmatico che si era imposto già nei primi anni del Novecento tra coloro che si erano organizzati attorno ai primi partiti comunisti. Occorre dire semplicemente che già Rosselli spiegava il limite gravissimo che andava ad interessare coloro che sostituivano nelle proprie teste una “chiesa”, un “vaticano”, con un altro. E però rimanevano valide alcune delle prime intuizioni di coloro che avevano aperto la via al pensiero cosiddetto socialista, come il problema della laicità dello stato, il problema dei diritti individuali, il problema dei rapporti in un mondo che si avviava alla emancipazione degli scambi e delle attività dei singoli. Con Rosselli è Loris Fortuna a spiegare come è da intendersi una politica che semplicemente vuole tener conto della realtà: «La realtà ci sottopone un fatto», spiegava Fortuna discutendo in Parlamento del divorzio nel 1969, «un fatto doloroso, produttivo di disagi e di angosce, carico di dure conseguenze per tutti, e per i figli in particolare, ma un fatto esistente: la rottura di un matrimonio, la dispersione di una famiglia». «Proporre con la legge l’obbligatorietà dell’indissolubilità di ciò che è dissolto è suprema contraddizione; è lo scambio tra il dover essere e l’essere». Un fatto va affrontato quando esso diventa sociale. «Qui (in Parlamento) noi siamo […] a prendere coscienza dei fatti che la nostra società ci impone, a valutare i guasti che essi determinano nel tessuto sociale e a creare rimedi, se è possibile, per delimitarne la portata nell’interesse esclusivo del nostro popolo».
Fortuna ribadisce in un altro suo intervento parlamentare che l’approccio che interessa la politica in senso moderno deve prendere le mosse dalla «grande voglia dell’uomo di essere compiutamente sé stesso, contro il groviglio inestricabile di situazioni economiche schiaccianti, di leggi e di regolamenti che ne soffocano il libero sviluppo della personalità». Parliamo dunque di socialismo, ma di quello vivo. Del socialismo di Loris Fortuna.
Michele Lembo
(da Notizie radicale, 30/08/2006)