[...] tre sono i tempi, il passato, il presente, il futuro; ma forse si potrebbe propriamente dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro.
Agostino
Sono tre le sezioni che costituiscono quest’ultima delicata raccolta di Daniele Serafini (Quando eravamo re, pref. Giuseppe Bellosi, Mobydick, Faenza 2012, pp. 72, € 11,00), poeta di Lugo di Ravenna al suo quinto libro. “Tornando a Campoformido” sono dieci poesie in cui i versi incrociano la figura del padre aviatore morto nel 2003, e ne redimono il ricordo al punto da rendere finalmente possibile quel commiato che la vita vissuta non sempre è disponibile a concedere in pronuncia («Lasciami l’imperfezione / di questo tempo, umano, / concedimi il vuoto / che dischiude il senso, alto, / di appartenerti»). “Dodici dediche” sono altrettanti ritratti che si fermano ancora attorno al tema del ricordo, alla sua tenerezza, alla sua crudeltà, ma di cui la morte o la sua figura è compagna («E fu come folgore sapere / che vero esilio è il restare / in questo versante del mondo / nella luce che affatica e La nega»). E infine “Quando eravamo re”, che il lughese sottotitola “suite poetica in dodici movimenti”, in cui quello sguardo schiarito raggiunto nella prima sezione, e la forma del ricordo modellata nella seconda, incontrano il paesaggio impossessandosene, dando così luogo a un canto dall’andamento lento e lieve come le maree quando si disperdono nelle lagune. Non a caso la Pialassa (laguna a nord di Ravenna) è un luogo battuto dallo sguardo di Serafini in questa sezione, al punto da diventare un’immagine del tempo della memoria, che piglia (pia) i ricordi dal passato per poi lasciare (lassa) che quei ricordi ritornino nel passato medesimo.
Quindi, l’andare a ritroso nel tempo, che a prima vista sembrerebbe permeare i versi di Serafini, non è una vera e propria “nostalgia”, un desiderio di ritornare là, ad abitare i giorni di una felicità che sa troppo bene essere immaginata e mai davvero realizzata; è piuttosto un guardarsi indietro ma restando qua, in questo presente dal quale la vita passata diventa pensabile non nell’incompiutezza che nasconde ogni rimpianto, bensì nel disincanto procurato dall’aver appreso che la bellezza è negli occhi di chi la guarda. Per questo «Un luogo è incarnazione / è il farsi sangue della terra, / del sangue il divenire / vento, fiume, radice / sorgente primigenia».
Così il paesaggio abitato da Serafini, oltre a non essere soltanto spazio e territorio, non è neppure a dire il vero collocato nel tempo, è piuttosto disperso dentro il più morbido e fluente corso della “durata” così come la concepisce Bergson, dove è la coscienza a impastare l’esistenza e dare il ritmo a un tempo non più contato ma misurato. E allora il paesaggio diventa sia forma del nostro essere, sia ciò da cui il nostro essere prende forma, e di conseguenza anche il linguaggio (poetico in Serafini), tant’è che in questo senso chiude il Preludio della suite: «Siamo cresciuti forgiando parole / d’acqua e di nebbia, silenzi / sottratti al fuoco // in attesa che su noi scendesse / la grazia, la tenerezza / di quando eravamo re».
E se è vero che questo “quando eravamo re” (che peraltro chiude tutti i movimenti della suite) rimanda con troppa ovvietà al tempo dell’infanzia, è più vero andarne a cercare il senso all’interno della poetica pascoliana del fanciullino, provenendo però da una direzione diversa da quella del poeta di San Mauro, ed eventualmente passando attraverso la lettura dei brevissimi, ma altrettanto intensi, saggi di Freud sulla “Caducità” (scritto pensando a un incontro con Rilke, amatissimo dal poeta lughese) e su “Lutto e Malinconia”, che molta luce gettano sulla sua poesia: «Qui, finalmente, / si compie il cammino / quando lo sguardo errante / riposa in un abbraccio / tardivo / con il proprio destino».
Questo sguardo all’indietro che parte da qua – e in fondo come si è detto qua resta anche –, per quanto sia sommessamente appartato tra le ciglia sognanti della malinconia, tuttavia non è consolatorio, non risolve l’enigma del vivere e delle sue disillusioni, semplicemente lui quell’enigma lo sospende, e con serena amarezza lo esonera da ogni responsabilità. E lo dice nell’Epilogo in forma di prosa, dove il tono è dolente ed è come se parlasse da un luogo che pare molto lontano, ma in realtà la lontananza è in qualche modo da se stesso, oppure da una certa idea di vita. A questo punto il dialogo si fa serrato con alcune struggenti poesie di Derek Walcott (sicuramente Concludendo, però mi pare anche qualcosa da Preludio ed Epiloghi), e tuttavia mentre nei versi del caraibico resta l’idea di un gesto nervoso per un colpo di reni che rimette in piedi, in Serafini il disincanto è di segno differente. Tuttavia nessuna rassegnazione né passività o remissività, ma neppure più nessuna nostalgia, semmai adeguamento a quel fluttuare incondizionato che qui passa per vita: «Se ci vuole coraggio per restare / nei luoghi del proprio vero sentire, / occorre disciplina per andarsene. / E io me ne sono andato / col cuore bianco / dei gigli di mare / né esule né vinto / solo esploratore / di una nuova ricchezza / e di un nuovo candore».
Un libro da leggere sottovoce, ma pur sempre con la voce (come tutta la buona poesia del resto), lentamente, pensando al ritmo della marea in laguna, all’allungarsi dell’acqua sulla terra, e poi della terra sull’acqua, ascoltando attenti il frusciare di quel tempo lungo, e lasciare che le voci del passato e del futuro coincidano in quelle del presente.
Angelo Andreotti