È l’ultimo giorno del G8 a Genova, il 21 luglio 2001, quando si compie per mano di più di trecento operatori delle forze dell’ordine una delle pagine più nere della storia recente, una vera e propria sospensione della democrazia, come afferma lo stesso regista del film che illustra gli eventi, Daniele Vicari.
Diaz è il resoconto lucido e incalzante di quanto avvenuto in quella terribile nottata. Novantatré persone picchiate selvaggiamente con i manganelli dai poliziotti che fecero irruzione nella scuola omonima, dove si erano raccolti per dormire i manifestanti, in gran parte ragazzi giovani e giornalisti per lo più stranieri. Il comune di Genova, infatti, aveva concesso l’uso della scuola al “Genoa Social Forum”, come punto mediatico per l’attività giornalistica e come dormitorio.
Il verbale di polizia (in testa c’era il VII nucleo sperimentale antisommossa, vari altri reparti di Polizia e gli agenti della Digos, mentre i carabinieri circondavano l’edificio) parlerà di “perquisizione” per la sospetta presenza di black bloc. Ci sarà invece un pestaggio violento e programmato, con feriti gravi, uno in coma, poi condotti in ospedale, con lacerazioni, spappolamenti della milza, zigomi e costole rotte e molto altro ancora: una vera e propria macelleria messicana, come allora venne definita. Il tutto contro persone indifese, assolutamente impreparate a quell’orrore, pronte a non ribellarsi all’arresto, eppure oggetto di violenze inaudite e autorizzate dalle alte sfere.
La vicenda nel film viene raccontata attraverso il punto di vista straniato e terrorizzato di diversi personaggi: c’è l’inviato di un giornale italiano, la giovane ragazza fatta oggetto poi di scherno e violenze anche alla caserma di Bolzaneto, il manifestante aggressivo nel suo agire e tutti gli altri, la stragrande maggioranza, pacifisti e No Global, pronti a ripartire dopo la conclusione del G8. È il giorno successivo alla morte di Carlo Giuliani, alle accuse pesantissime rivolte alle forze dell’ordine, alle critiche feroci e non va dimenticato. Gli animi si sono surriscaldati; per la polizia, per i capi, servono azioni esemplari: addirittura verranno introdotte dalle stesse forze dell’ordine delle bottiglie molotov all’interno dell’edificio. Serviranno a procurare le uniche “prove” a sostegno della tesi per cui la Diaz sarebbe stata covo dei black bloc.
Dopo il pestaggio nella scuola e le torture in ospedale una cinquantina di arrestati vivrà anche quelle nella caserma di Bolzaneto, con l’accusa di associazione a delinquere, resistenza aggravata e porto d’armi. Solo dopo diversi giorni tutti i manifestanti verranno scarcerati dai giudici per insussistenza delle accuse a loro carico…
Il processo per i fatti della Diaz ha visto due sentenze; in primo grado le pene avevano colpito solo tredici imputati, in secondo grado venticinque fra gli agenti della Diaz, molti dei quali di grado elevato, sono stati processati e riconosciuti colpevoli di lesioni, falso, calunnie e sono stati condannati. Si sono avute però anche molte prescrizioni e inoltre non son state chiarite fino in fondo le dinamiche dei fatti e le responsabilità di chi vi prese parte. Nessuno dei condannati è comunque mai stato rimosso, neppure per un solo giorno di lavoro, si legge alla fine del film. Altri aspetti rimangono oscuri: nessun poliziotto ha denunciato i colleghi, non si conoscono tutti i nomi dei responsabili materiali del pestaggio, né il ruolo che ebbero i singoli funzionari nell'elaborazione dei verbali pieni di falsi. Presenta punti assai poco chiari anche il ruolo di Gianni De Gennaro, l'allora capo della polizia che era in contatto telefonico con i dirigenti impegnati a Genova ed è stato poi condannato per induzione alla falsa testimonianza, e non si sa nulla di certo circa le coperture politiche che scattarono subito dopo per evitare l'inchiesta.
Dall’11 al 15 giugno si svolgerà l’ultimo capitolo processuale, davanti ai giudici di Cassazione (per la prescrizione il termine maturerà il 21 settembre 2012 ed è sperabile non avere sorprese, visto che il faldone Diaz è giunto alla Suprema Corte solo il 26 novembre scorso, nonostante il processo d’appello sia chiuso dal 18 maggio 2010…).
Per i fatti di Bolzaneto i pubblici ministeri al processo contro le forze dell'ordine riferirono di persone costrette a stare in piedi per ore, ad assumere le cosiddette posizioni del cigno e della ballerina, ad abbaiare per poi essere insultati e oggetto di allusioni e minacce di tipo politico e sessuale, colpiti con schiaffi e colpi alla nuca ed anche lo strappo di piercing, anche dalle parti intime. Molte le ragazze costrette a spogliarsi, a fare piroette con commenti brutali da parte di agenti presenti anche in infermeria. Secondo la requisitoria dei pubblici ministeri i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo e, pur consci della gravità dei fatti, omisero di intervenire, permettendo che trattamenti inumani e degradanti continuassero in infermeria…
Sempre riguardo ai fatti di Bolzaneto, il 5 marzo 2010 il processo d’appello a Genova si concluse con 44 condanne per rappresentanti delle forze dell’ordine e del personale sanitario e purtroppo molte prescrizioni; queste ultime sono state rese possibili, come rimarcato da Amnesty International, a causa dell’assenza nel codice penale italiano del reato di tortura che invece, se contemplato, impedisce la prescrizione. L’Italia oltre tutto è firmataria della Convenzione ONU contro la tortura del 1984 e perciò è tenuta a provvedere a questo manchevole ritardo.
Testimonianze dirette, anche dei giornalisti accorsi fuori dalla scuola Diaz quella sera stessa, video girati nella concitazione da qualche protagonista riuscito a defilarsi per degli attimi, reportage accurati dei pochi reporter che hanno seguito fin da subito gli eventi non lasciandosi ingannare dalle false dichiarazioni ufficiali, le pur lievi condanne, tutto ciò non dovrebbe più far dubitare nessuno di quanto successo quella notte.
Anche il bel film di Vicari, da vedere per il suo valore civile ma apprezzabile realmente anche per le indubbie qualità cinematografiche e per l’intensa recitazione, porterà sicuramente più conoscenza, informazione laddove è mancata, nell’immediatezza e per gli anni a seguire. Non dimenticando che un’intera generazione di ventenni, quelli che allora si affacciavano per la prima volta nelle piazze e nella vita politica del Paese, attraverso la contestazione pacifica, fu letteralmente traumatizzata dalla scoperta e dall’esperienza diretta e indiretta della violenza arbitraria in grado di scatenarsi in maniera autorizzata e ufficiale anche in un Paese democratico. Lo stesso movimento No Global non ebbe più la forza di contestare i vertici internazionali come in quegli anni, dal ’99 al 2001.
Nell’assistere alla proiezione di questo film si avverte una forte empatia con le vittime, sia per le violenze cui vengono sottoposte all’improvviso, senza motivo, senza provocazione ad averle in qualche modo innestate, senza essere interrogati o perfino solamente guardati, sia per la rabbia che sentiamo crescerci dentro nel sapere quanto poi si sia cercato di insabbiare, di nascondere, di lavare. Ma, e ci viene ribadito giustamente nel sottotitolo, è necessario fare nostro il monito Don’t clean up this blood: davvero “Non sia lavato questo sangue”, ma ne si porti memoria.
Affinché, se la verità processuale non sarà affermata come purtroppo tanto spesso accade in questo nostro Paese, lo sia almeno quella storica, quella dei fatti nudi e crudi, per rispetto a ognuna di quelle persone, per rispetto al nostro intimo sentirci parte del consesso umano.
Annagloria Del Piano