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Mattia Guastafierro. Le morti “non fatali” dello sport
12 Maggio 2012
 

Mai come in questo inizio d’anno, il mondo dello sport si era dovuto confrontare con una serie di tragedie così simili e ravvicinate. Ben tre atleti di tre discipline sportive diverse, tra Marzo e Maggio 2012, hanno perso la vita, in campo o in allenamento, a causa di un arresto cardiaco, e un quarto è finito in coma. La vita per Vigor Bovolenta (pallavolista), Piermario Morosini (calciatore) e Dale Oen (nuotatore) si è spenta in modo fulmineo, mentre facevano ciò che amavano, e ha sfiorato Patrice Muamba (calciatore) senza però riuscire ad abbatterlo.

Nel corso della storia, la morte è sempre stata una componente dello sport. Discipline estreme o di velocità implicano l’eventualità della tragedia e la morte stessa, si può dire, fa parte del gioco: il pilota o lo sportivo estremo sono consapevoli dei rischi cui vanno incontro e accettano volontariamente questa condizione. Da Casartelli a Simoncelli, passando per Villeneuve, sono molti gli atleti che hanno perso la vita fatalmente o per un errore umano, ma il loro triste destino resta legato intrinsecamente alla pratica sportiva.

Diverso, però, è il discorso quando la morte agisce improvvisamente, senza motivazioni apparenti e si abbatte su atleti di sport non soggetti a particolari rischi. È questo il caso dei campioni citati all’inizio, forti, giovani e sani, che si sono accasciati, privi di sensi, sui loro terreni di gioco; ed è su casi simili che si apre il dibattito riguardo all’effettiva fatalità della loro morte. Questa seconda tipologia di decesso sportivo, infatti, può essere accostata, non senza motivo, alle morti sul lavoro: come l’operaio che lavora in nero, senza aver ricevuto l’adeguata attrezzatura, rischia di morire per negligenza altrui, così l’atleta, sottoposto raramente a controlli, rischia la stessa sorte. Statisticamente è possibile che un infarto colpisca soggetti completamente in salute ma appare piuttosto improbabile che lo stesso attacco di cuore abbia conseguenze su ben quattro individui, per di più sportivi, nel giro di poco più di due mesi. L’arresto cardiaco, solitamente, obbedisce a precisi sintomi, tipici di persone la cui salute è fortemente a rischio e il cui ritratto non corrisponde minimamente a quello di un atleta. Emerge, dunque, il sospetto che questi tipi di incidenti siano favoriti da determinate cause, che, anche se rilevate dall’autopsia, difficilmente poi sono rese note.

La medicina, ormai da molto tempo, è entrata a far parte costantemente del mondo dello sport e col suo progredire ha avuto sempre maggiore voce in capitolo nella preparazione degli atleti. Il medico è una figura basilare di ogni associazione sportiva e si presume, perciò, essere preparata e competente. Può capitare, però, che non sempre predisponga diagnosi corrette e commetta involontariamente degli errori che possano contribuire al danneggiamento della salute dell’atleta, o peggio ancora, che coscientemente prescriva al giocatore medicinali controversi, sottoponendolo a considerevoli rischi con l’obiettivo di migliorarne le capacità atletiche. Un medico poco esperto o senza scrupoli può essere, quindi, la causa primaria di un possibile problema di salute per l’atleta, ma non la sola. Solo poche e attrezzate associazioni sportive effettuano, infatti, regolari controlli fisici sui propri atleti che, inoltre, sono continuamente sottoposti a sforzi e pressioni smisurate nell'obiettivo di superare limiti che il fisico umano non è in grado di sostenere.

Esaminando queste tristi vicende col dovuto rispetto, appare chiaro che non ci si può fermare alla semplicistica fatalità dell’evento, per la quale invece propende la maggior parte dell’opinione pubblica. Sono solo supposizioni, intendiamoci, ma se “due indizi fanno una prova”, quattro allora…

 

Mattia Guastafierro


 
 
 
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