Viva Hollande! Ma è evidente che abbiamo un sacco di problemi. Perché nel girotondo della globalizzazione i paesi del nostro continente hanno queste due opzioni: o si mettono insieme, o tutti giù per terra.
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico. Un socialista all’Eliseo. I laburisti in Gran Bretagna sono andati piuttosto bene. A Kiel, capitale dello Schleswig-Holstein, si preannuncia una coalizione rosso-verde con l’aggiunta dei rappresentanti della minoranza danese. In Francia la destra è sconfitta, arretra in Germania e Gran Bretagna, in Italia collassa, in Grecia conquista per un soffio il premio di maggioranza, ma subito si arrende e fugge non essendo in grado di governare quell’antico e nobile paese.
C’è qualcosa di ripetitivo oggi nel sole. Perché già una dozzina di anni fa il centro-sinistra aveva conquistato gran parte delle capitali europee. Ne seguì una sequela di schemini di finanziarizzazione, di delocalizzazione, di disarticolazione sociale, guerre. Rien de rien.
Adesso, infatti, sempre qui stiamo, sull’orlo del nostro vulcano morale e sociale weimariano, e io speriamo che me la cavo. Perché – viva Françoise Hollande! – ma è evidente che abbiamo un sacco di problemi. Perché nel girotondo della globalizzazione i paesi del nostro continente hanno queste due opzioni: o si mettono insieme, o tutti giù per terra.
Stati Uniti d’Europa! Belle parole. Facili a dirsi. Le migliori teste del continente le vanno rimuginando da secoli. Già nel 1795 il Filosofo di Koenigsberg pubblicava il suo progetto cosmopolita Per la pace perpetua. E s’interrogava, Kant – ironicamente, ma non troppo – sulle umane possibilità di anticipare un po’ di pace nell’aldiquà, un po’ prima cioè di quel Requiem divino che eternamente illumina il mondo dei più. Erano gli anni della Rivoluzione, cui seguirono quelli di Napoleone e infine quelli della Restaurazione. Mezzo secolo dopo la pubblicazione del progetto kantiano, nell’infuocato clima di sollevazione generale del 1848, Carlo Cattaneo sentenziò: «Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d'Europa.»
E novantatré anni dopo Cattaneo, all’acme tragico della conflagrazione mondiale, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni rilanciarono l’idea europeista nel Manifesto di Ventotene come architrave della convivenza pacifica, una volta che la guerra di Liberazione fosse finita. «La rivendicazione dell'unità europea» – ricapitolava proprio su queste colonne Eugenio Colorni l’11 febbraio del 1944 – «esprime oggi l'aspirazione molto diffusa per un ordine tra le nazioni europee che sia veramente atto a garantire la pace, la libertà e la giustizia.»
Due anni più tardi, nel 1946, Winston Churchill esortava vinti e vincitori a fare presto: «Fate sì che la Giustizia, la Grazia e la Libertà prevalgano! I popoli debbono solo volerlo... Perciò io dico a voi: fate sorgere l'Europa!». Un fervore quasi unanime sgorgava dagli ideali della Resistenza in vista di una “non lontana” unificazione politica dell'Europa. Ma già nel 1947 i progetti visionari, le generose esortazioni, gli appelli alla ragione e i manifesti illuminati finirono nel cassetto della glaciazione sovietica a sinistra, e della psicosi maccartista a destra.
Un disastro, il fallimento politico di un’intera generazione, commentò amaramente Ignazio Silone assistendo al ritorno in pompa magna dello “Stato nazionale, questo anacronismo del XX secolo” al seguito di sua maestà la Guerra Fredda.
Eppure, da allora l’Europa ha compiuto enormi passi avanti. «Se oggi la più parte del continente gode dei diritti umani e della pace, noi questo progresso non ce lo eravamo neanche immaginato: né nel 1918 né nel 1933 né nel 1945», ricordava Helmut Schmidt pochi mesi or sono: «Ma questo progresso incredibile è, insieme, anche un obbligo, per tutti noi. E dunque noi dobbiamo lavorare, e noi dobbiamo combattere, affinché l’Unione Europea, un unicum della storia umana, sappia uscire dalla sua attuale debolezza, forte e consapevole di sé». Progresso inimmaginabile, ma siamo comunque giunti al Bivio.
«Serve un New Deal per l'Europa, altrimenti sarà la fine. L'Europa del futuro o sarà solidale o non sarà», dichiarava ieri da Atene Georges Papandreou commentando il “disastro” che pur sarebbe stato evitabile in una logica più intelligente e meno ideologica.
Come fare? Bisognerebbe anzitutto ripartire dalla centralità della Politica come luogo delle scelte collettive. E la prima scelta collettiva consisterebbe oggi nell’accettare che il concetto di “bene comune” vada esteso e approfondito. Perché i cittadini di un comune rustico non possono realmente decidere la conservazione dei ghiacciai, né i cittadini di una repubblica marinara possono realmente decidere l’abolizione dell’acqua alta.
Occorre comprendere che l’Europa unita ci è indispensabile alla costruzione di una governance cosmopolita, a sua volta indispensabile per poter deliberare sul da farsi.
In questa luce, l’Europa deve mettere sul tavolo la vecchia idea di Jacques Delors, una raccolta obbligazionaria capace di sorreggere il varo di un grande piano per la crescita. L’esponente dei Socialisti e Democratici (S&D) Gianni Pittella, primo vicepresidente del Parlamento europeo, valuta un fabbisogno di milleduecento miliardi. A Bruxelles si discute di questa Strategia 2020, ma è di vitale importanza, sottolinea Pittella, «accompagnare alla disciplina finanziaria a una altrettanto vincolante disciplina della crescita sostenibile e della coesione sociale».
Che cosa significa “crescita sostenibile”? Qui si apre la grande frontiera di una ristrutturazione eco-compatibile dell’intero patrimonio edilizio, affinché ogni edificio del nostro Continente produca da sé più energia di quanta non ne consumi. Esempi analoghi sono pensabili per il rilancio agricolo, il reinsediamento industriale, il sistema dell’istruzione e della ricerca.
Ma la questione centrale riguarda l’uso stesso che l’Europa intende fare di sé in un mondo nel quale il Mediterraneo riacquisisce centralità, non solo in quanto il 15% dei traffici mercantili globali naviga oggi tra Suez a Gibilterra. Ma soprattutto perché l’Europa si decide nel Mediterraneo come topos del suo rapporto solidale con Africa. Lì si possono e quindi si debbono affrontare risolvere i veri problemi sul tappeto, il principale dei quali è l’Africa stessa.
«L’Africa è ancora il più grande problema del mondo», ha sostenuto di recente Romano Prodi. «È il continente più povero, con gli indici più arretrati. Ma cosa c’è finalmente oggi? C’è la speranza. D’improvviso. Anche se non possono mettere a posto la situazione, perché il punto di partenza è molto basso, anni di sviluppo hanno dato all’Africa la speranza. E la speranza è la più grande risorsa che esista».
Ecco l’uso cosmopolita possibile che l’Europa deve fare di sé. Ed ecco dunque che una massiccia strategia di sostegno ai popoli del Maghreb imperniata sullo sviluppo della ricerca e della produzione d’energia solare si configura come il potenziale volano di un’espansione agricola e industriale nel Nord Africa che può avere ricadute positive sull’intero continente.
Solo quel che è bene anche per l’Africa è veramente bene per l’Europa. Ma per affrontare bene la Questione Africana, l’Europa deve unirsi. Ma per unirsi bene, l’Europa deve “vedere” il proprio telos nella Questione Africana.
Al gran bivio, vale qui un’antichissima sentenza: “Questo è quello – questo è nient’altro che quello”.
La Questione Europea, che è l’altra faccia della Questione Africana, altro non è che la Questione Socialista. Cosa significa? Significa che, semplicemente, non usciremo da questa nostra crisi di civiltà senza riformare profondamente la nostra civiltà.
Willy Brandt ha dedicato l’ultima parte della sua vita a riposizionare la socialdemocrazia europea sul meridiano Nord-Sud. È giunto il momento di passare dalle parole ai fatti. E i fatti evidenziano che, proprio in Europa, il socialismo si è dimostrato compatibile con la democrazia, avendo comprovato di saper governare la complessità libertaria delle nostre società.
Purtroppo non così il capitalismo. Il capitalismo delocalizza le risorse del lavoro nella rendita parassitaria e poi, proprio sul piano finanziario, va in bancarotta. Condanna lo Stato, maledice le tasse, poi privatizza il pubblico denaro e socializza le perdite private, in perfetto stile libero retorico-morale. Compra e vende tutto, dunque anche l’anima sua, avendo offuscato ormai completamente il riferimento altruistico alla base di ogni etica umana.
«Presentare oggi come necessaria ed urgente una lotta per un’impostazione europea dei nostri problemi fondamentali, equivale dunque in primo luogo, a rivolgere un appello al socialismo, equivale richiamare il socialismo alla sua storia», avvertiva Silone con forte accento sul fatto che «la funzione internazionale del movimento socialista è oggi una immediata ed urgente necessità europea». Questo è quello – questo è nient’altro che quello.
Andrea Ermano
(da L'Avvenire dei lavoratori, newsletter 8 maggio 2012)