L'articolo di Valter Vecellio “L’uninominale per battere la crisi” mi spinge a voler riprendere il dibattito sulla legge elettorale possibile in Italia.
Il debito pubblico sembra diventi più alto nei Paesi con un sistema elettorale proporzionale rispetto a quelli con un sistema uninominale. Ma a ben vedere i Paesi con tale sistema sono a maggioranza di mentalità anglosassone, ad esclusione della Francia. Forse il problema è la mentalità e l'approccio verso la politica, almeno per quanto riguarda l'Italia.
Zingales apprezza il sistema uninominale, ma poi fa un elogio della formula elettorale dei comuni. Che non è un sistema a collegi, ma ha un premio di maggioranza per la coalizione che appoggia il candidato sindaco vincente, più la possibilità di scrivere un nome. In realtà nei comuni la situazione non è affatto così rosea, di certo è stato possibile creare un'alternanza.
Ma l'alternanza in questione non è semplicemente data dal bipolarismo, ma da un sistema elettorale che facilita il pluralismo e le eventuali alleanze al secondo turno per stare in maggioranza, nonché il voto disgiunto. Insomma, meccanismo complessi tanto quanto efficaci se usati con intelligenza. Al punto che a Napoli De Magistris è riuscito a vincere. In un sistema bipartitico questo non sarebbe stato possibile.
Il porcellum sarebbe una brutta copia del modello dei comuni, escludendo la preferenza (che non è cosa da poco). Ma in realtà scoraggia liste e coalizioni alternative, cosa che non fa la legge dei comuni. Il primo problema da risolvere di quel sistema è il rischio di avere un Senato con una maggioranza risicata e di colore opposto alla Camera, cosa da scongiurare assolutamente alle prossime elezioni. Sarebbe bastato che i partiti presenti in Parlamento si fossero mossi per creare almeno il Senato federale. Gli altri problemi sono l'assenza di una preferenza, la candidatura multipla, sbarramenti troppo alti per liste e coalizioni alternative,che non permetterebbero un certo pluralismo a vantaggio dei cittadini.
Un tale modello ha il problema di non rappresentare il territorio. Ma d'altronde nemmeno il sistema elettorale delle regioni lo fa, eppure ce ne sarebbe bisogno perché spesso diventano consiglieri esponenti che nascono, vivono e ottengono la maggioranza dei voti nei centri urbani (un esempio su tutti il Lazio). Prerogativa tipica del collegio uninominale, che altrimenti non permette la rappresentanza delle minoranze, puntando tutto sui singoli.
Senza considerare che un sistema uninominale come quello del Regno Unito non garantisce una maggioranza di un solo colore, certa e la stabilità di un governo di per sé. Lo dimostrano le ultime elezioni che hanno visto una difficoltosa alleanza (nota bene: dopo il voto) tra conservatori e liberaldemocratici. La cosa buona di quel sistema è la facilità di candidarsi e di fare campagna elettorale in territori piccoli, per cui non c'è necessità di somme ingenti per farsi conoscere. Il contrario di quel che accade qui in Italia (dove si chiedono tante firme a chi è fuori, mentre i partiti che sono dentro o le falsificano o si fanno le leggi per non avere l'obbligo di raccoglierle).
Quindi, sarebbe ora di discutere di modificare quelle norme che limitano il potere dei cittadini (quorum ai referendum, mancato obbligo di discussione delle petizioni popolari e delle proposte di legge dei cittadini, assenza di referendum propositivi e, appunto, difficoltà di candidatura e di farsi conoscere da parte dei candidati non partitocratici).
Quindi bisognerebbe ridurre quasi a zero le firme da raccogliere per presentarsi, garantire servizi ai candidati e rimborsi per tutti (non solo chi supera una certa percentuale), facilitare e ampliare gli strumenti di democrazia diretta in grado di allentare il potere che alcuni personaggi riescono ad utilizzare contro la democrazia, contro la res publica.
Emanuele Rigitano
(da Notizie Radicali, 4 maggio 2012)