– La poesia è per lei un continuo esame di coscienza, però la sua poesia è anche dialogica (così lei stessa la considera), ossia mette in dialogo il sé con gli altri. Ce ne parla?
Siamo tutti costituiti dagli stessi materiali, variano le dosi, e sono solo le dosi a renderci diversi fra noi e fra noi sconosciuti. Sappiamo bene che quando ci si trova fra amici - situazione che io spesso rappresento nelle mia poesie - non si parla mai di cose serie, per il timore di apparire ridicoli o sorpassati. La mia massima curiosità sarebbe conoscere il vero stato dell'altro per confrontarlo col mio: “dove si è in tanti”, dicevo in Compagni corpi, “qualcosa si farà contro la morte”. Vorrei che la poesia fosse una sorta di questionario aperto. La mia terza raccolta s'intitolava E tu fra i due chi sei?
– Il fatto che lei non segua fedelmente la metrica tradizionalista italiana, ma abbia un suo verso libero, cioè un suo ritmo interiore, deriva tutto dalla passione che l’ha condotta alla stessa poesia?
Certo, ho un ritmo interiore, sin dagli inizi, ma non è vero che non sono fedele alla metrica italiana. Al contrario: frammisti a versi liberi faccio un largo uso di settenari, doppi settenari ed endecasillabi e qua e là mi valgo anche della rima.
– Le città italiane a cui fa una dedica: Ferrara, Venezia e Milano in Compagni corpi, che poi ritornano insieme a Macerata in L’asso nella neve. Bilanciare gli interni e gli esterni, scrivere del mondo per parlare di sé…
Certo che si parla di sé quando si evocano momenti e luoghi (una sera incantata al teatro di Ferrara, i ritorni serali dalle amate Marche, Venezia imbalsamata o i confortevoli bar di Milano centro etc.), e viva in me è anche la Russia, dove sono stata molte volte anche di recente, Mosca, Pietroburgo e Volgograd (ex Stalingrado), da cui viene il titolo L’asso nella neve. È lo spatial turn: oggi sentiamo lo spazio più che il tempo.
– Perché scrivere o raccogliere poesia dal 1990 in poi? È come se per lei ci fosse stata in un certo momento un’urgenza tarda di condividerla? E che cos’è la dicotomia che vive tra versi e romanzo, emersa in L’asso nella neve?
Ho cominciato a scrivere poesia al liceo, dove ho avuto il plauso di un critico come Anceschi. Non ho mai smesso del tutto (ho da parte una piccola raccolta giovanile che forse tirerò fuori), solo che allora mi effondevo soprattutto nei diari e avevo il pregiudizio di dover dare la vera prova di me nella narrativa. Così, accanto alla produzione saggistica di docente di germanistica, negli anni 70-90 ho scritto, lentissimamente, tre romanzi, pubblicati e riconosciuti, e ci sono ritornata col romanzo-biografia di Heirich von Kleist nel 2004-5. Perché il romanzo? Perché dà spazio, perché crea una più larga comunione con gli astanti. Il poeta è come un franco tiratore che spara da solo da una feritoia: può dire ciò che vuole e può farlo con poco materiale. Il narratore combatte in mezzo agli altri in campo aperto ossia deve tener conto delle comuni esperienze e farne un edificio che stia in piedi.
– La fede che nei suoi versi viene sfiorata senza che assuma confini netti, è solo essere presenti a se stessi, avere coscienza di sé?
No, è una fede vicina a quella cristiana ed è, come dice Pascal, una «faccenda del cuore». Sono occidentale, individualista e marcata dalla storia, la figura di Cristo mi affascina e non trovo ricovero né nel panteismo di Spinoza né nelle religioni orientali. Ma detesto ogni detentore della verità, il dogmatico credente e il non meno dogmatico ateo. Io sul divino voglio poter fantasticare. Creazionismo o darwinismo? Ma c'è davvero un conflitto fra i due?
– Si desume dalla sua lirica che il rischio sia inevitabile nel corso della nostra esistenza: abbassare – volenti o nolenti – le barriere interiori per accoglierla attraverso gli altri, i cosiddetti Compagni corpi. È il patrimonio genetico che ci salva dall’autocondanna, dal giudizio su noi stessi, è la vanità dell’essere umano, che è evoluta insieme a noi dalla più “superficiale” e istintiva autoconservazione di sé. Ma fino a che punto lei si affida alla sua vanità e quanto la considera utile all’individuo, sia esso o meno poeta?
Domanda complessa. Abbassare le barriere interiori verso gli altri è un bene, conciliarsi col reale serve sì a soffrire meno, ma non porta lontano, come pure il darsi all'autoconservazione di sé, che pure occorre. Per poetare ci vogliono salute e malattia, orgoglio e insieme sprezzo di sé.
– Quanto la sua poesia dipende dal presente e cioè coglie il verso nell’istante in cui vive, e quanto, invece, scrive in una condizione di rimembranza? Quanta è l’urgenza e quanta la sedimentazione? E non sto parlando di rielaborazione razionale.
La mia poesia dipende molto dagli impulsi dell'istante. Ma l'istante fornisce elementi, che all'inizio non so ancora cosa significhino, come si debbano aggregare. Devono sedimentare su un sostrato, su un mio continuum pre-esistente, trovare una logica.
– La superficialità dilagante che lei accusa e subisce nei suoi versi si è davvero tanto radicata da sostituire il mondo interiore che si tramanda di generazione in generazione? Le nuove generazioni che impressioni le danno?
Oggi tutto diventa passato in un istante, e noi pencoliamo su un presente convulso che non può più dare peso a nulla, a nulla appoggio, perché ingoia e digerisce subito ogni cosa: tragica, bella, orribile, comica non fa differenza. Ma il “mondo interiore” c'è pur sempre. A Venezia, accovacciati sui gradini di chiese e monumenti, vedo sempre dei giovani turisti con un quaderno sulla ginocchia, che scrivono e scrivono. Diari di viaggio, lettere, immagino. E le valanghe di poesie che producono i giovani? Ma qui temo che la chiamata del “mondo interiore” sia inquinata dal narcisismo e da una totale disinibizione davanti allo scrivere.