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Gianfranco Cordì. Scrutando l’interminabile: Emanuele Severino
09 Aprile 2012
 

Una filosofia della gomma. Una filosofia che cancella quanto c’è di sbagliato ed emenda, rettifica, equilibra, sana infine il malinteso. Alla luce della considerazione di tutta la propria esperienza di pensiero, Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929) ha pubblicato per la Rizzoli questo suo Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia (2011) che racchiude il senso completo di un itinerario speculativo partito prestissimo e transitato attraverso alcune delle tappe cruciali del Novecento, secolo di cui il nostro autore è stato anche un protagonista e un interprete tra i più raffinati. Il volume contempla ed illustra le tappe principali del cammino teoretico di Severino alternandole a momenti, invece, più direttamente privati della sua vita. Il tutto raccontato con uno stile che è sempre schietto e preciso specie nelle diverse descrizioni afferenti alla sfera familiare della vita del filosofo, descritte in un'alternanza (peraltro molto interessante) continua rispetto ai passaggi più strettamente filosofici - spesso generati e scaturenti dalle vicissitudini della stessa esistenza di Severino. Ne risulta così un libro, alla fine, godibile e ricco di aneddoti e spunti: un vero e proprio complemento indispensabile per chi già è addentro alla speculazione severiniana oltre che, del resto, una specie di baedeker molto importante per chi volesse avvicinarsi - magari proprio in relazione a questo stesso libro - alla meditazione originale del pensatore di Brescia.

Ma perché, dal punto di vista globale, la filosofia di Severino può essere avvicinata al concetto della correzione, della riforma, della modifica, in una parola: della gomma? Intanto perché «un libro di memorie è un errare». Per cui «come suonano falsi e distratti tutti questi ricordi! Non nel senso che io stia scrivendo cose nella cui esistenza non credo, ma nel senso che, proprio perché credo nella loro esistenza, sono false, distratte. False, poiché dicevo all’inizio che ricordare è errare, sognare. E distratte, perché ciò che del ricordo si scrive o si dice è tratto-fuori e quindi è separato dal modo concreto in cui il ricordo si presenta. Proust ha tentato qualcosa di simile». Ma che cos’è l’errare? Che cosa significa sbagliare? Che cosa vuol dire vivere nella scorrettezza? Abitare la contraddizione? Condursi, in ogni caso, all’interno dell’inesattezza? Ad un certo punto, Severino dichiara «da tanto tempo sono poi convinto dell’importanza eccezionale, e forse unica, della filosofia gentiliana, ma in un senso diverso da quello sostenuto da Contadini: nel senso negativo, poiché Gentile è stato uno dei più grandi maestri del nichilismo, cioè dell’Errare estremo». Errare è dunque inevitabile, ecco perché si ha bisogno di una gomma, per porre rimedio a questa falla, per costruire un riparo contro questo qui pro quo. Ed è proprio in tale momento topico della considerazione astratta, la quale ha guidato Severino per tutto il corso della sua vita, che si innestano la note «vicende che all’inizio del 1970 condussero al mio incontro, al palazzo del Sant’Uffizio, in Vaticano, con gli esperti di questa “Sacra Congregazione”». Ecco allora che teoria e concreta vita vissuta fanno un tutt’uno ed il filosofo si trova a dover rendere conto di quello che ha scritto e pensato davanti ai suoi censori ed ai suoi accusatori. «La Chiesa dichiarò dunque ufficialmente la radicale incompatibilità tra il mio discorso filosofico e il cristianesimo, e la sua decisione fu inclusa negli Acta Apostolica».

Ma che cosa sosteneva ed affermava il «discorso filosofico» di Severino? «Sin dalla metà degli anni Sessanta i miei scritti affermavano in modo esplicito… l’alienazione dell’Occidente, e dunque non del solo cristianesimo, ma del cristianesimo in quanto forma eminente della civiltà occidentale. Il che significa che anche ogni forma di ateismo è immersa in questa stessa alienazione in cui il cristianesimo si trova». Anche il messaggio della Chiesa è «completamente avvolto dalla persuasione che il mondo in quanto creato, esce dal nulla e vi ritorna – e che le cose del mondo sono a loro volta questa oscillazione tra l’essere e il nulla –; dalla persuasione che è l’essenza autentica del nichilismo, giacché pensare che gli essenti siano stati nulla e tornino ad esserlo significa affermare l’esistenza in cui l’essere è il nulla». In definitiva «l’essenza del nichilismo è pensare che le cose vengano dal nulla e vi ritornano. Questo pensiero implica che si creda che gli esseri (ossia ciò che non è nulla) siano nulla. E questa è l’impossibilità estrema». Anche la Chiesa cattolica è coinvolta in questo movimento di pensiero in funzione del quale viene attuata una forma di ricovero, di panacea, di provvedimento, di antidoto. Afferma infatti Severino che «è quindi inevitabile che, da che nasce, l’uomo avverta come prioritario l’andare alla ricerca di un Rimedio, di un Riparo che gli consenta di sopportare o addirittura di vincere l’angoscia, la sofferenza, la morte». Ed inoltre «l’amore è una grande forma del Riparo». Come potersi mettere, dunque, in questa situazione di scampo? «Stare oltre il nichilismo significa sapere che “perpetuo” – e non “acquistabile” da una qualche operazione (come l’opera d’arte, o la grazia divina) – non è solo ciò che costituisce l’essenza delle cose, ma tutto ciò che loro appartiene; e che dunque un evento consistente in “coloro che non sono più “è soltanto il contenuto di un sogno; di un incubo. Non c’è nessuno che non sia più. Tutto è eterno». Ed infine «anche l’errare, la contraddizione, la stessa follia del nichilismo sono eterni»; infatti «eterno è tutto il contenuto dei nostri ricordi».

Anche questo libro di memorie, questa Autobiografia, è perciò qualcosa di eterno. Ma nello stesso tempo, come abbiamo visto, essa è un errare. Ed ecco che per porre rimedio a questo inganno Severino propone una filosofia della gomma, della cancellatura (e della riscrittura): un pensiero che annulla la mancanza giustapponendo la verità di un ricordo che è, esso stesso, perpetuo, incontrovertibile, assoluto. «È vero che ricordare è sognare; ma anche i sogni e ciò che essi mostrano sono eterni». Quella appena detta è la forma di contravveleno rispetto al dolore, alla sofferenza, al malessere generato dal divenire delle cose del mondo. Dal pensare «che le cose vengano dal nulla e vi ritornano». Ma Severino non si ferma a questo e subito propone una visione immaginifica nella quale hanno largo spazio i concetti di «gioia», di «destino» e di «follia». Il filosofo di Brescia, in sede di rievocazione della propria gioventù, scrive: «già alla fine dei miei studi universitari incominciava a delinearsi il tema centrale della mia riflessione filosofica: che cos’è quella “verità definitiva, incontrovertibile”, di cui tutta la filosofia degli ultimi due secoli afferma la morte? (…) Il problema non è più soltanto il senso dell’incontrovertibilità della metafisica, ma dell’incontrovertibilità in quanto tale». Tra storielle, curiosità ed episodi riguardanti Levinas, Gadamer ma anche Enzo Paci e Gustavo Contadini, l’autore di Destino della necessità intende affermare, dunque, solamente questo pensiero: esiste una forma di provvedimento e questo toccasana riguarda la sfera del perenne, dell’inestinguibile, dell’imperituro. Anche questo libro, questo Il mio ricordo degli eterni, appartiene a detto stato permanente ed incessante. Dichiara infatti Severino: «in ogni uomo il suo ricordare è il suo ricordo eterno degli eterni – dove eterni sono, appunto, sia le cose ricordate, sia il ricordante». Presunzione? Supponenza? Mera congettura? Puro ideale? Inoltre, affermare che «se tutto è eterno, tutto è legato a tutto, si ché, se un filo d’erba non fosse, nulla sarebbe», vuole anche dire, in qualche modo, che niente è eterno e che ogni cosa è isolata rispetto alle altre. Se «tutto è eterno» si può anche pensare che «eterno» non vuol dire niente. E se «tutto è legato a tutto» può anche ipotizzarsi che essere «legato» sia la stessa cosa che essere «disgiunto». In questa guisa, dunque, il «discorso filosofico» (durato tutta una vita) di Emanuele Severino sembrerebbe non avere alcun senso. Giustificando tutto e, dall’altra parte, speculando su tutto, esso non ci direbbe nulla su di noi e la nostra vita di uomini della contemporaneità e nemmeno risponderebbe ad alcuna delle grandi domande di cui è costituita e composta la storia della filosofia in tutto il suo svolgersi oramai bimillenario. Ma occorre restare sempre dentro le parole autentiche del filosofo. Egli ha affermato infatti che la sua è una riflessione intorno all’«incontrovertibilità». In questo senso, il pensiero di questo nostro autore acquista un significato particolare - che probabilmente è quello più propriamente suo e peculiare. Ci troviamo di fronte a una filosofia della gomma e del «senza principio e senza fine»; dell’«immutabile», dell’«incessante», dell’«indistruttibile». Una riflessione, insomma, su «ciò che non può essere messo in controversia». Su «ciò che è impossibile discutere o negare». Tale ragionamento possiede, naturalmente, un suo sicuro valore ed una sua importanza. È certo anche ovvio che ci si può chiedere (la filosofia ha il dolere di farlo) se tale «ciò che è impossibile discutere o negare» esista effettivamente. Ma anche nel caso non esistesse, è altrettanto vero che la filosofia può fidatamente «porre in questione» questo «ciò che è impossibile discutere o negare». Si che, allora, la speculazione di Severino affonderà i suoi colpi (distinti e - bisogna dirlo - genuini e singolari) senza lasciare spazio all’incongruenza o al dubbio.

Sul terreno della possibilità o dell’impossibilità dell’«incontrovertibile», Emanuele Severino è oggi davvero un’autorità. Ed il senso della sua teorizzazione può essere, adesso, racchiuso, in questo rilievo: «ogni gesto, azione, pensiero, affetto della vita quotidiana è sin dalla nascita un’espressione della volontà di essere al Riparo, cioè dalla volontà di potenza e di salvezza». Nell’«incontrovertibilità» è la «salvezza». Di fronte al divenire del mondo Nietzsche poneva «l’eterno ritorno dell’uguale». Severino no. Egli pone «la gomma». La cancellazione del male e la nuova trascrizione dell’«eterno». Qui e solo qui si trova l’«oltrepassamento» del nichilismo: un fenomeno che, del resto, appare inevitabile. Severino infatti afferma: «e io credo – e credo che anche ogni altro uomo lo creda da quando esiste sulla Terra – che le cose del mondo divengono altro. Credo nella Follia estrema. Essa è la madre di tutte le fedi, ossia di tutte le forme della follia – anche di quella cristiana, dunque». Credere nella «follia estrema» vuole dunque dire sperare nel «rimedio»: nella «ragione estrema». La razionalità dell’allocuzione è la chiave di volta dell’«incontrovertibile» inteso come «destino». Infatti, «il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo stesso apparire appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile. Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino». Ma, chiediamoci, nei confronti del «destino» si spera, si opina, si confida, ci si adatta, si subisce o ci si rivolta? La filosofia di Emanuele Severino, puntualmente, riesce a chiarire tutti questi punti. Fermo sempre restando che «lo scopo essenziale, fondamentale di ogni forma di civiltà e di cultura è il continuo potenziamento del Riparo». In fondo, è come se si fosse in presenza di una condizione duale: da una parte il male, l’errore, la sofferenza, dall’altra la difesa, il ripiego, il baluardo. In questa direzione, l’«incontrovertibile» - in quanto schermatura e sicurezza - appare così come il centro di un pensiero che conosce il mutevole e il cangiante ma si attesta sul sempiterno e l’inestinguibile. Ciò «che è in un modo e non può essere altrimenti» evoca fin da subito i concetti di necessità, non contraddizione e unicità. Senonché questa unicità viene estesa dal filosofo a tutte le cose. In tale particolare congiuntura si verrebbero così a perdere la diversità, il dialogo e l’alterità. Tutto sarebbe un magma indistinto composto della stessa sostanza. Anche il gesto di scrivere questa recensione costituirebbe qualcosa di «eterno» del tutto uguale al gesto di alzarsi per andare a prendere un bicchiere d’acqua. Ma cosa vuol dire tutto ciò? In definitiva, quale è il senso di questa «eternità»? Probabilmente, nel dettato di Severino, tale costrutto ha a che vedere con l’irripetibilità; col cogliere appieno ogni istante della nostra vita; col sogno di un presente immutabile che costituisce tutto quanto l’essere e tutta la pienezza dei valori e degli ideali di ogni singola persona. Anche ogni pietra è eterna. Anche ogni fiore, ogni pianta, ogni animale. E tutti quanti i desideri e le azioni degli esseri umani. Anche un’intuizione avuta per un attimo e subito sparita dalla nostra mente...

Il messaggio di Severino potrebbe non voler esprimere nulla e potrebbe voler far intendere tutto; o piuttosto: molto. «Noi siamo l’eterno apparire del destino» afferma il filosofo di Brescia. Qualcosa che deve essere rettificato, una gomma, e qualcosa che ci permette di annotare una verità nuova. Anche il momento della nascita è eterno, anche il momento della morte. Dice Severino: «per primo Eschilo pensa che la verità sia il supremo rimedio contro il dolore, l’angoscia, la morte – e la verità viene pensata secondo il senso abissale che, insieme a lui, Eraclito e Parmenide andavano portando alla luce: la verità come sapienza incontrovertibile e quindi come incontrovertibile negazione del mito». Ragione, assoluto, verità, incontrovertibilità, rimedio: tante parole per dire l’impossibilità che le cose stiano in altro modo rispetto a quello in cui effettivamente stanno e sono. Un’attestazione di esistenza che è nello stesso tempo diventa una testimonianza quasi mistica. E in questo legame tra esistenzialismo e misticismo, tra fede nel dominio pratico della vita e tensione verso una trascendenza continua di questa stessa congiuntura, Severino prospetta una filosofia che resta sempre problematica e aperta. Una filosofia che sembra attestarsi ed arrestarsi al mero dato di fatto. Salvo che, con un movimento lineare, questo stesso dato di fatto viene rapportato, in continuazione, a qualcosa di altro. A qualcosa che in fondo non c’è, ad un quid che non si vede, a un’idea che l’uomo può soltanto presagire ma mai provare definitivamente. In tale discrasia - che è pure una ricchezza e una feconda officina filosofica - Emanuele Severino si posiziona come il massimo teorico dell’evidenza. Il che è come voler dire: come il massimo teorico dell’invisibile. Rivalutazione della concreta vita vissuta da un lato, ed esaltazione del totalmente altro, dell’enorme e indiscriminato «eterno» dall’altro. Tra Dio e la fragilità umana, insomma. Con in mano una gomma per depennare le inesattezze e una penna per vergare qualche nuova verità. Severino è, quindi, un correttore dell’esistenza, un regolatore dei mostri che attraversano il nostro cammino, un revisore di idee sbagliate e di sogni al contrario. Più che concreta, la sua filosofia è utopica anziché astratta. È una specie di tendere a, un provarci, un anelito verso qualcosa che ci supera e oltrepassa. In fondo egli è un idealista. E proprio per questo Severino si va a inserire nella grande tradizione dell’idealismo italiano, tradizione che secondo alcuni non solo si protrae fino ai giorni nostri ma è anche l’unica che ha caratterizzato la storia della filosofia del nostro paese. Un’idealista con la gomma: che incide, abrade e re-incide continuamente le cose e il loro spirito più segreto. Un’idealista che modifica, ritocca e sistema. L’ultimo dei grandi costruttori della perfezione. Un filosofo che si sporge verso il compiuto, l’eccellente e la quintessenza. E questo Il mio ricordo degli eterni si compone infine di una serie di flashback molto interessanti che riguardano principalmente la moglie dell’autore, Esterina, i due figli (Federico e Anna), il sindaco di Brescia Bruno Boni, gli anni della gioventù, l’iscrizione all’Università di Pavia, la morte (durante la seconda guerra mondiale) del fratello Giuseppe. La vita e l’opera si intrecciano dunque, come nel caso del Mio scontro con la Chiesa (titolo di un'altra opera di Severino, edita sempre dalla Rizzoli), in una narrazione che - come la filosofia che la sottende - prescrive l’eterno incondizionato essere di tutte le cose. Tutte ugualmente stabili e tutte ugualmente relative a se stesse e al grande disegno provvidenziale che le governa e regge.

 

Gianfranco Cordì


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