Ne I dispiaceri del vero poliziotto1 (ultimo romanzo, postumo, dello scrittore cileno Roberto Bolaño) il professor Amalfitano, parlando dello scrittore desaparecido Arcimboldi, afferma che la caratteristica essenziale della sua opera è che, «benché tutte le sue storie, a prescindere dallo stile, fossero dei gialli, si risolvevano soltanto con la fuga, in alcuni casi con uno spargimento di sangue (reale o immaginario) seguito da una fuga interminabile, come se i personaggi, finito il libro, saltassero letteralmente fuori dall'ultima pagina e continuassero a fuggire». Se, come dice Alain Resnais, La vita è un romanzo partiamo allora dalla fine: Roberto Bolaño muore in un ospedale di Barcellona il 15 luglio 2003. È in coma da diversi giorni, a causa di un'insufficienza epatica che lo affligge da anni. Nonostante sia in cima alla lista d'attesa per un fegato nuovo, il fegato non arriva. Bolaño attende un qualcosa che non si materializza. Dopo aver passato gran parte della sua vita a narrare le gesta di scrittori che scompaiono, Bolaño diventa uno di questi. Nell'ultimo giorno in cui fu lui, Bolaño diventa il personaggio di un suo romanzo. Anzi, diventa la somma di tutti i personaggi dei suoi romanzi. Ora, giunto alla conclusione, può tranquillamente saltar fuori dall'ultima pagina e fuggire.
Avvicinarsi a un romanzo postumo è sempre qualcosa di difficile. Eppure le vie sono numerose. C'è la via filologica, con l'analisi delle diverse stesure del testo, le varianti, i tagli e le addizioni. C'è la via etica, con la riflessione sul valore letterario che può avere un testo non emendato in vita dall'autore e riproposto in maniera più o meno arbitraria. C'è poi la via tematico/stilistica, che ricerca l'aderenza dell'opera alla produzione trasversale del romanziere. E c'è, perché no, una via che chiamerei “metaletteraria” e che, in definitiva, cerca di sommare le vie precedenti. Con un unico particolare, però: quello di fagocitarle con voracità al suo interno, salvo poi fregarsene altamente di tutte. In omaggio a un voto fatto sotto la doccia a Mario Santiago Papasquiaro (altresì noto come Ulises Lima)2 mentre leggevo un libro di Macedonio Fernández, ho deciso di seguire quest'ultima.
Tre cose mi hanno particolarmente incuriosito ne I dispiaceri del vero poliziotto:3 in primo luogo, il prodigarsi sia da parte del prefatore che da parte della curatrice editoriale (rispettivamente all'inizio e alla fine del romanzo) nello spiegarmi che sì, che i Dispiaceri è un romanzo bolañano al cento per cento; che la struttura era stata riveduta e corretta più volte dall'autore in vita, che la prassi filologica è stata rispettata con rigore e dedizione e che lo stile è impeccabile: degno del miglior Bolaño. Il secondo aspetto che mi ha colpito è la sostanziale (e trasversale) omogeneità dei passaggi scelti per parlare del testo tanto dall'editore (Adelphi, in questo caso), quanto da diversi recensori, nonché dallo stesso prefatore citato in precedenza. L'ultimo aspetto che mi ha incuriosito, poi, (almeno per ora) è che Bolaño iniziò a lavorare a questo romanzo alla fine degli anni '80 e, tra una correzione e una riscrittura, ci si dedicò fino alla morte. Nel frattempo, con gestazioni più brevi (ma non per questo meno travagliate) erano nati i Detective selvaggi e 2666, le due prove romanzesche sulla lunga distanza che fanno ancora dibattere i fan di Bolaño su quale sia la più bella, più di quanto il dualismo Rivera-Mazzola degli anni '70 facesse dibattere i tifosi italiani. Se anche questi aspetti fossero dei personaggi, ora potrebbero tranquillamente fuggire dalla pagina, e questa recensione sarebbe finita. Mi dispiace, ma non è così: per quel che mi riguarda abbiamo appena iniziato.
Quando si parla dell'opera di Bolaño (soprattutto nel mondo editoriale anglo-europeo) si commettono solitamente due errori di valutazione: il primo è che ci si dimentica del Bolaño poeta (o, per lo meno, che si tende ad accennare a questa sua formazione solo in modo liminale); il secondo è che lo si accosta sempre al buon Julio Cortázar; accostamento che, pur essendo corretto, non ci avvicina di un millimetro a capire Bolaño. Anzi, a mio avviso, ci confonde ancora di più. Ritornando per un attimo alle mie letture pre e post doccia (il durante doccia lo lascio a Papasquiaro), mi è capitato di imbattermi nel passaggio di una recensione di un film che mi ha fatto pensare immediatamente alle strutture narrative di Bolaño: «[questo film] è l'ultima trappola del grande vecchio di Calanda, e può apparire enigmatico perché seminato di trabocchetti, false piste, scherzi, inganni che offrono pane per i denti dello spettatore con la smania dell'interpretazione». Inutile dire che il “grande vecchio di Calanda” è il regista Luis Buñuel, il cui percorso umano si avvicina tanto a quello di Cortázar, quanto la produzione si avvicina a quella di Bolaño. Insomma, ecco l'inizio del pastiche metaletterario di cui parlavo. Non fermiamoci assolutamente: il tempo stringe!
Un po' come nei film di Buñuel, nei romanzi di Bolaño le trame si sommano agli stili, disorientando completamente il lettore. Il poliziotto cui accenna il titolo del romanzo, infatti, altri non è se non il lettore, portato a indagare sulle vicende dei personaggi del romanzo, secondo i “capricci” di Bolaño. O meglio, secondo i suoi trabocchetti. Trabocchetti che, come chiarisce il titolo fin dall'inizio, porteranno solo dispiaceri, sinsabores. Là dove Buñuel se la giocava sul filo del grottesco e del paradossale per inscenare una forte critica alla società4 (critica non priva di un certo humour nero e di un compiacimento nel creare misteri insolubili per lo spettatore), Bolaño utilizza la chiave metaletteraria, mettendo in scena un vero e proprio universo di narrazioni concatenate (la lucetta che si accende lampeggiando “Borges! Borges!” è inevitabile), attraverso il quale parlare del mondo, della letteratura, della società, del delirio, della violenza. Già, perché se la letteratura5 è la faccia luminosa (?) e ricorrente attraverso cui parlare del mondo, la cara oscura6 è data dalla geografia spietata di Santa Teresa - Ciudad Juárez:7 il luogo più violento del mondo, vero e proprio personaggio-totem di tutti gli ultimi romanzi di Bolaño. La morte, a Santa Teresa è una costante. Se gli scrittori scomparsi sono personaggi che si accalcano fino all'ultima pagina, salvo poi fuggire via, le donne straziate di Santa Teresa sono desaparecidas che appaiono per diventare violenza. Per ricordarci che non per tutti la fuga si risolve a chiazze d'inchiostro. Che a volte il liquido che cola, non è nero o royal-blu. Nei film di Buñuel spesso la morte non è descritta, bensì semplicemente accennata. Lo spettatore la sente arrivare, la idealizza, la percepisce. Con Bolaño l'impressione non è troppo diversa. Quando si inizia ad annusare il sapore del deserto del Sonora, si sa già che del sangue è stato versato.
Torniamo ai Dispiaceri, e lasciamo lì Buñuel (già lo vedo in fuga, mettiamoci il cuore in pace...). Prima accennavo a tre cose che mi hanno incuriosito; due erano riferite alla percezione/presentazione del romanzo da parte di individui esterni, mentre una (per altro non scollegata) faceva diretto riferimento alla scelta di Bolaño di non emendare il romanzo in vita nonostante una ventina d'anni di lavoro e svariate riscritture. Ora, già vedo l'ipotesi più plausibile (e, quindi, la più noiosa) sulle labbra dei filologi impolverati: nonostante un lavoro concreto e continuativo di correzione, Bolaño non riteneva questo testo “completo”, quindi ha preferito puntare su 2666, portandolo a compimento sul filo di lana della sua esistenza, bruciando la Morte (con la “m” maiuscola) di un soffio. La presenza, però, di numerosi attestati di fiducia sulla bontà dei Dispiaceri,8 nonché le prove tangibili delle riscritture, hanno fatto sì che agenti letterari, case editrici e prefatori vari si trovassero tra le mani un perfetto e filologicamente inattaccabile romanzo “da pubblicare” e commentare. Per dirla alla Hitchcock, Il delitto perfetto.
Restando fedele al ruolo che Bolaño mi ha dipinto addosso, cercherò di fare il poliziotto, ma selvaggio. I miei dispiaceri sono anche le mie conclusioni per quanto riguarda questo romanzo. I dispiaceri del vero poliziotto è un'incredibile palestra narrativa dove Bolaño, per una ventina d'anni, si è allenato con costanza, passione, divertimento, sagacia, astuzia, professionalità e, perché no, voluta confusione. Le pagine sono spesso diseguali, ma bellissime. L'alternanza di stili e registri, pur corretta svariate volte, non è omogenea come nei Detective selvaggi o in 2666, eppure il romanzo non ne risente, bensì se ne arricchisce. Il lettore si trova così palleggiato tra il Bolaño maturo e quello degli esordi, tra il poeta infrarealista e lo scrittore desaparecido. Tra il metaletterato borgesiano e il narratore divertito ma spietato. In questo tourbillon di stili e tendenze, il romanzo ne esce come un luogo di formazione dell'autore stesso. Una Santa Teresa dove Bolaño trovava i cadaveri della sua crescita come romanziere, e li sezionava, trasportandoli in altre storie. In altre pagine. In altre narrazioni. In un passaggio dei Dispiaceri,9 il poliziotto-mentore Gumaro afferma che quello del poliziotto è «il miglior mestiere del mondo, l'unico dove uno è davvero libero o sa in modo certo, senza la minima ombra di dubbio, di non esserlo». Bolaño, scrittore e lettore non meno incallito di Papasquiaro (cui rivendico di aver rispettato il voto fatto!), è il primo dei poliziotti, quindi sa perfettamente che la sua libertà di scrittore è un'assoluta e bellissima non-libertà. I Dispiaceri sono ovunque, perché Bolaño è ovunque nei Dispiaceri. Non è facile liberarsi di un romanzo. Né catalogarlo. Di certo, non basta il calcolo delle varianti o il calco delle citazioni. Leggere ciò che già abbiamo letto sotto altra forma (senza però esserne a conoscenza), in fondo, non è troppo diverso dal recitare Sion di Cesárea Tinajero: in entrambi i casi, ciò che ci è stato dato non trova nella pura descrizione la sua importanza.
E poi? Poi mi sembra di vederli di nuovo, per un istante, accalcati nel deserto del Sonora di queste righe. Sento l'odore di uno strano tipo di violenza. Come se linee parallele si fossero forzatamente incontrate in quell'infinito che è la letteratura. E da lì avessero preso nuove misure. Li vedo. Li vedo nitidamente. Ci sono Bolaño, Mario Santiago, Sir Alfred, il vecchio Buñuel, Cesárea e Carole Bouquet. E poi Arcimboldi, Ulises Lima, Arturo Belano e Padilla. In disparte vedo Ángela Molina e Cortázar. E Amalfitano, Borges, Resnais e quel vecchio sbirro di Gumaro. Mi scosto un po', e allungo di nuovo la testa. Un sassolino cade, un rumore sordo nel silenzio. La polvere si alza dal suolo desertico. Io li vedo che mi fissano, quasi impauriti. Non faccio in tempo a lanciarmi verso di loro e afferrarli che no, non ci sono più. Finite queste righe sono saltati fuori dalla pagina e sono scomparsi, fuggendo letteralmente in mille direzioni.
Andrea Gratton