Cento anni fa, il 30 marzo 1912, si chiudeva a settan’anni l’avventurosa vita di Karl May, uno degli scrittori tedeschi più letti e più tradotti al mondo. Nato in un piccolo paese sassone da genitori poverissimi, May diventò insegnante elementare, ma perse ben presto il posto di lavoro per via di una serie di piccoli imbrogli e ruberie con cui cercava di arrotondare il non lauto stipendio. Per ben due volte finì in carcere, accusato di reati minori, e da prigioniero cominciò a dar libero sfogo alla sua fervidissima fantasia, iniziando a scrivere quella sfilza di romanzi che diventarono lettura imprescindibile per tanti ragazzi tedeschi a partire dal tardo Ottocento. Ambientate in America o in un Oriente che May non aveva mai visto di persona, le storie - che non pretendono d’essere altro che letteratura d’intrattenimento - sono animate dal desiderio di favorire la fratellanza fra genti diverse, di conciliare mentalità e abitudini anche molto differenti, perché frutto di tradizioni culturali lontanissime. Il suo zelo di prosatore, benedetto da una fertilità straordinaria, garantì finalmente a May sicurezza economica.
L’eroe più noto nato dall’inventiva di May è forse il capo indiano degli Apaches Winnetou, che non solo si lega con un’amicizia profonda e di estrema lealtà all’occidentale Old Shatterhand, ma alla fine ne condivide persino l’impostazione esistenziale cristiana. I due personaggi sono entrambi esagerati: il conquistatore del Far West per il suo immenso coraggio, che non lo fa arretrare di fronte a nessuna difficoltà, tanto che persino da uno scontro corpo a corpo con un enorme orso grizzly questa sorta di Superman esce vincitore. Ma dotato di non minori talenti è anche il giovane Winnetou, prototipo del “nobil selvaggio”, che con la sua fierezza e la sua dirittura morale riesce a spegnere nell’amico, suo “fratello di sangue”, ogni iniziale diffidenza e ogni atteggiamento di spocchiosa superiorità.
Nonostante gli intenti edificanti, tuttavia, i testi di May non sono certo del tutto privi di espressioni non propriamente politically correct. Tacciato per questa ragione di essere portavoce del colonialismo occidentale, anzi di una volontà di “germanizzazione” delle realtà geografiche extraeuropee, May fu demonizzato dal movimento studentesco del ’68 e messo in disparte per qualche decennio. Ma i ragazzi continuarono a divorare i suoi libri, molti dei quali tradotti anche in italiano, e a farsi trascinare dalla scrittura chiara, semplice e incalzante di May in quei mondi lontani - a tutta prima noti allo stesso autore soltanto grazie a letture, mappe e guide, e da lui visitati solo in seguito al successo dei suoi libri - dove alla fine sempre trionfa la bontà.
La sua incoercibile fantasia spinse May a offrire ai suoi numerosi lettori anche un’immagine stilizzata di sé, identificandosi con il suo eroe e dichiarando per esempio, con quel piglio da lestofante megalomane che non lo abbandonò mai, di conoscere ben 1200 fra lingue e dialetti.
Oggi alla sua opera si guarda con maggiore indulgenza, sottolineando nei volumi più che un desiderio di propaganda coloniale - o addirittura razziale - l’invito a uno sforzo di reciproca comprensione, premessa fondamentale per l’accettazione e integrazione del diverso.