Cominciamo da questa affermazione: il pensiero che parla dalla poesia è un pensiero non filosofico, non religioso ecc., ma una provocazione a pensare altrimenti.
Non è sbagliato indicare nell’alleanza tra parola poetica a parola cognitiva una strada percorribile per l’esperienza di pensiero del poeta. Ma ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili a introdurci in una tonalità poetica complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non è agevole immaginare i contorni e gli esiti. Uno scrivere che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.
Ogni opera milita sempre per una certa parte: prende partito, insomma.
In generale, la poesia è un’obiezione contro “questa” realtà.
Partendo da queste considerazioni nel 1976 alcuni poeti hanno promosso una rivista di ricerca letteraria che si chiama Anterem.
Questo nome, “Anterem”, porge esplicitamente attenzione al valore prelogico della parola, chiamata a d essere il luogo di raccordo fra percezione e sensibilità. Si riferisce alla parola che non è ancora il corrispettivo della cosa designata. Si rivolge, vichianamente, alla parola che precede le forme tipiche della riflessione. Alla parola che ancora non ha varcato quel limite oltre il quale la rappresentazione del mondo comincia a scindersi in classificazioni. Alla parola originaria, insomma.
La poesia vuole essere un libro da aprire, non soltanto una presenza. Ecco perché una rivista di poesia: per aiutare il lettore a sottrarsi alla scena insopportabilmente illuminata dai mass media, a concepire il linguaggio non solo come “mezzo”, e a concepire se stesso non solo come spettatore ma come soggetto criticamente capace di intervenire sul testo.
Va ricordato che la parola è lo statuto dell’essere umano, per la sia capacità di costituirsi limite su cui le figure e le cose del mondo prendono la loro misura. È in questa tensione che il linguaggio poetico le scopre differenti e dunque individualmente esistenti. Tensione in cui si apre il fondamento, la regione originaria in cui l’essere si manifesta.
Insomma, ci vorrebbe maggior tolleranza per le parti notturne della nostra anima, tenute al solito accuratamente nascoste.
Pare che il potere tecnico-economico, con la sua idea diurna e produttiva del lavoro, abbia delegittimato tutte le altre forme di rappresentanza degli interessi e delle passioni. Ed è un dato su cui lavorare.
I tempi che viviamo sono più del calcolare che quelli del meditare. Anziché proteggere la sua felicità, l’uomo si dà un’esistenza pietrificata, si infligge progressive mutilazioni.
Va rimessa in circolo l’idea di una poesia che in qualche modo sia il prodotto di un’esposizione e di un ascolto nei confronti delle cose senza mediazione. Infatti, per la parola poetica non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe la ragione, ma di incontrarle.
La scommessa della rivista è proprio quella di muoversi in questo spazio di frontiera: dov’è possibile abbracciare il doppio orizzonte. Consentire alla parole poetica di tendere al non detto e nello stesso tempo, offrendole un palcoscenico, uno spazio di ascolto, servire il “dato di fatto”.
Il dato di fatto è questo: poesia non è la messa in scena di una realtà preesistente, esterna all’invenzione linguistica. Poesia è nuovo evento.
Per questo il poeta, da una parte, custodisce il valore della parola, lasciando intatto il suo legame con il silenzio e, dall’altra favorisce le transizioni fra codici differenti (scientifico, politico, religioso, etico, musicale, filosofico…) allo scopo di stabilire una nuova relazione con la passione della verità.
Il primo compito lo affida all’opera. Il secondo ai sistemi di relazione della rivista. Ecco come fa a impedire che la sua diversità venga annientata od omologata al potere.
L’intenzione è evidente: la parola poetica potrà essere ripristinata nel suo valore solo incastonandola in un nuovo progetto del mondo. Verso un nuovo inizio. L’aiuto della rivista può essere determinante per consentirle di tornare a rappresentare la coscienza della società. Un tempo, riviste o non riviste, lo era.
Un’altra cosa va fatta: va stabilita la specificità della figura del poeta, su ciò che ancora non si sa, come su ciò che non è più logico, l’uomo suole imprimere una forma e un nuovo linguaggio, per dominarlo. Ma il linguaggio non è solo una rigida struttura logicizzante, padroneggiata dagli utenti.
Bisogna conquistare integralmente la realtà se si vuole che l’immaginazione prenda il volo. Questa è la rivoluzione culturale a cui ci invita la lotta contro una società che domanda all’essere umano “Quanto paghi?” invece di chiedergli “Cosa pensi?”.
Contro una società che trasforma la parola in merce. E la rende servile. Sarà una lotta di lunga durata. Probabilmente l’araba fenice dello spirito creativo dovrà attendere ancora a lungo nel suo vaso cinerario. Ma è scritto: “Saremo giudicati non se avremo vinto, ma se non avremo lottato” (San Marco, Vangelo).
Come ci indica Hölderlin: “Molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre”.
Flavio Ermini
(da Trasversale, 29 marzo 2012)