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In libreria/ Matteo Bianchi. Ancora su “Il miliardesimo maratoneta” 
Recensione dell’ultima raccolta in versi di Giuseppe Samperi
Patrizia Garofalo,
Patrizia Garofalo, 'Panarea, baia con vela', 2011 
26 Marzo 2012
 

Come una moneta che ha due facce, o un foglio di carta. La frattura che divide il significante e il significato, la forma e il contenuto, l’occulto e il manifesto, il rimosso e il detto, il desiderio e l’oggetto, l’invisibile e il visibile è al centro della riflessione occidentale sul segno, la parola.

Gabriella Sica, da Scrivere in versi.
Metrica e poesia
(il Saggiatore, 2011)

 

 

Già dal titolo dell’ultima raccolta di Giuseppe Samperi, Il miliardesimo maratoneta (Edizioni del Calatino, 2011), si desume la condizione dell’autore di sentirsi un maratoneta nella gara che è l’esistenza; infatti nella dolce dedica esplicativa augura alla figlia da poco nata «che questa vita volontaria / possa esserti maratona / volontaria e gioiosa, / senso e ragione / (o amabile follia) / d’essere vissuta» (pag. 11). Una gara in cui l’obiettivo non cade, però, sulla competizione per primeggiare – egli stesso si considera uno su un miliardo –, bensì per mettersi di continuo alla prova, nel bene e nel male. La stessa «maratona del mondo» di James Joyce, che ti schiaccia sotto i piedi, se non fai attenzione. I personaggi dell’Ulisse sono bombardati da un’infinità di stimoli che poi si diluiscono, nel rifiuto naturale degli stessi di trattenere una tale confusione, nella banalizzazione dei simboli da cui sono ossessivamente circondati, riuscendo così a vivere meglio ma più in superficie. Joyce fa sì che loro non si prendano sul serio. Volutamente. Samperi, invece, vuole impiegare tutte le sue forze nel viaggio, senza necessariamente focalizzare la meta. La riuscita non sarà altro che la conoscenza irraggiungibile di sé e la fatica starà perciò nel sopportare, preservando la propria dignità, l’umana contraddizione che non ci permetterà di arrivare al traguardo, la verità salvifica.

La poesia di Samperi si sviluppa in modo lineare, priva di sorprese che accechino il lettore per contrasto, bensì raggiungendo apici di intensità emotiva che diventano solidi, come fossero cera, linfa sudata di una candela. Per il poeta è una questione di passione; che sia amore tra uomo e donna, legame familiare – paterno o filiale – oppure bisogno di scrivere, non importa: è una motivazione che dà slancio, che «pulsa […] / e prepari il piede / sulla linea» (pag. 87).

Una linea di confine di cui sfida la tenuta, che si fa equilibrio tra le due facce della moneta esistenziale, ragionando sul bordo che mette costantemente in dubbio l’autore davanti al suo io mancato, al suo riflesso: il rimpianto ed il rimorso si alternano nelle «colpe» e nel «[…] vizio / del gambero a rovescio» (pag. 53), nelle possibilità perdute e negli errori del passato.«[…] Fra gli anfratti / che gli daranno respiro» (pag. 57), la poesia stessa diventa ciò che non è potuta essere l’esistenza, caricandosi di positività giacché ci realizza; una sorta di nostro contrario spirituale ed intangibile dunque, che scade e si polarizza in negativo nell’istante in cui ci priviamo della realtà quotidiana per esso. Ma la via di mezzo non è impossibile, basta perseguirla tenacemente. Anche Paolo Ruffilli nei suoi Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003) scrive con forza, tramite la voce di un personaggio innominato,che «noi viviamo in un mondo che ha il suo esatto contrario dentro di sé», e difatti queste «danze di rovescio» di Samperi culminano nel conio del termine «vitamorte» (pag. 55), fusione di due opposti e presa di coscienza della dicotomia terrestre, patrimonio genetico di ogni essere vivente.

Il poeta si rifugia nella sua «isola d’inchiostro», ma non vuole «essere di carta», quella beata finzione culturale «è conto che non torna». L’illusione di avere trovato un senso nella propria costruzione mentale nasconde «il gorgo», a volte «girotondo d’acqua», a volte «risacca del fondo pagina» che trascina giù: Samperi imposta un gioco rispettoso con le parole e le mescola come fossero sabbia nell’acqua. La scrittura è una «battaglia», è lama da ambo i lati, ma flebile poiché sottile e precisa come «la punta di uno stilo» e tutto sommato sopportabile una volta impugnata, dato che consente di indagarci allo specchio, e metterci a confronto con noi stessi e il prossimo. Prima che la pagina del diario di bordo, del tracciato che dà la rotta all’esistenza si faccia «gabbia» che, ingegnosamente, è intesa dall’autore nell’accezione di «termine tipografico per indicare i limiti del libro che contengono la scrittura» (pag. 31). Ecco che l’individuo si percepisce come l’ingegnoso nemico di sé, citando una definizione dell’Alfieri alla propria indole oscura e che in seguito sarà sviscerata attraverso un’analisi critica di Giacomo Debenedetti. Il poeta «lascia ma non lascia» il suo viaggio interiore, un eterno ritorno alla quiete del foglio, al proprio porto sepolto. Solo il «dubbio», incessante, si fa vuoto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, fino a che il corso della vita non colma la mancanza, con la messa al mondo di una bimba.

Chiede perdono, Samperi, ad un “tu” a cui si confida sereno, a cui si affida: la compagna, un caro amico di via, o il lettore, l’altro con il quale accompagnarsi sino «al giro di boa», per concretizzare le parole, farle reali, tangibili, farle corpo nello scambio. L’autore usa anche espressioni dialettali, sconfina sanguigno nella dimensione di appartenenza alla terra in cui è nato, rossastra e brulla è la valle del Calatino, ma ricca di agrumi dolci; spreme le parole e ne asciuga il significato sul foglio, fissandolo indelebilmente attraverso il suo vissuto. Ha una voce differente da quel Montale ramingo e sconfinato di Satura (escluso, ovviamente, l’inciso degli Xenia), che negli anni Sessanta scrisse «dicono la mia / sia una poesia d’inappartenenza», e si manifesta più vicino all’intimismo di Ungaretti, che si placava di fronte al focolare, agli affetti, alle persone care. In conclusione cita Branduardi, un cantautore, esortando chi lo ascolti a cogliere la prima mela. Ma è nel silenzio dopo la battuta finale, il verbo di chiusa, che sta l’ultimo frutto, a cui il poeta aspira ignaro, e continua a salire il suo albero senza però perdere di vista il colore dell’erba e chi lo aspetta a terra.

 

 

Nota 

a margine e sottovoce:

non so 

diventare uomo.

 

Ho provato in quel consorzio

a far valere una proposta:

centoventigrammi il solo

spessore delle dita.

 

*

 

Il debito

non è il tempo che ho mancato

ma la distanza non prevista,

il prezzo esente vita

da scontare.

 

*

 

Madre qui fuori fa freddo

gli uomini indaffarati non hanno

sfarzo di fermarsi sui fogli

a diventarne fragili.

Le guerre iniziano

prima della lotta

e a far guardia fra i carri

l'aurora è umido che assale.

Lasciami tranquilla

nelle ore che a spillo di corazza

mi incidono i versi.

 

*

 

Il quando puoi dirmelo

prima del buio, a vespro

dopo il fischio, mentre

all'aspro dell'arancio

rivà il giorno.

 

*

 

Il perché non chiedermelo.

Una giostra, un battito

quel centimetro di sole

alla ringhiera,

dopo

un filo d'erba

o un suo sorriso.

 

Matteo Bianchi

(da Corrente Improvvisa, 19 marzo 2012)



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