Per un’Italia migliore in un’Europa migliore
di Sergio Caivano
Dopo il crollo del muro di Berlino, autorevoli commentatori, anche italiani, parlano di fine della Storia, con l’intero mondo ormai imperniato sul sistema capitalistico, l’unico sopravvissuto nello scontro col comunismo collettivistico. Nasce il “pensiero unico”. Niente più conflitti di classe, contrapposizioni tra capitale e lavoro, ma un’economia e una società rette unicamente sul liberismo globalizzato e sul libero scambio. Per la verità, il pensiero unico viene subito inteso come un individualismo egoistico e rampante, che nel tempo riesce a sovrapporsi ad ogni regola, da quelle della società, del diritto vigente, della politica, dello stesso mercato. Uno spirito di deregulation incontrollato che, con la globalizzazione dei mercati, assicura il dominio assoluto della finanza sull’economia reale. Quando la finanza assume le dimensioni attuali, pari a dieci volte il PIL dei vari paesi, secondo stime attendibili, e cioè del valore effettivo dell’attività economica fondata sul lavoro e sull’impresa, significa, in parole povere, che l’economia di carta ha preso il sopravvento sull’economia reale basata sulla produzione. La finanza si crea il suo nuovo potere. Potere che esercita in modo incontrollato, spinta dall’avidità del denaro e del guadagno facile.
La speculazione internazionale, partita da ambienti della destra economica e politica degli USA, si abbatte sull’Europa e sul nostro Paese. In nome del dio denaro, scatena guerre combattute con le borse e con gli spread ed è capace di richiedere ai cittadini e ai paesi ormai divenuti sudditi, sforzi sovrumani per sopravvivere.
Dobbiamo aver piena coscienza di quanto avviene, per cercare di capire e di uscire da questa situazione. Purtroppo la crisi ha messo in luce l’incapacità assoluta della nostra classe dirigente nel suo insieme a fronteggiare la situazione. In particolare la classe politica ha dimostrato per lunghi, troppi anni, di essere interessata ai propri affari e alla propria sopravvivenza, non a quelli del Paese. Negli anni ottanta, nell’intento di crearsi ampi consensi, offre i titoli di stato attorno al 20%, consentendo alla classe media e alta di procurarsi rendite a basso rischio. Ma produce il dilatarsi del debito pubblico, passato dal 60% del PIL degli anni settanta ad oltre il 100% degli anni novanta, per esplodere poi, tranne una temporanea riduzione dovuta a Ciampi e Prodi, agli attuali 120%. Ma non è solo questo. Difende a spada tratta i monopoli e i privilegi di riferimento. La corruzione e l’insipienza portano l’Italia ad un’economia ingessata, dominata da poche persone presenti in tutti i consigli d’amministrazione, pubblici e privati, incapace di eliminare le rendite di posizione, controllare il debito pubblico, opporsi alla tirannia delle agenzie di rating. Il Paese è ormai sull’orlo del baratro. Ma anche la cosiddetta società civile, nel suo complesso, non reagisce come avrebbe dovuto, accetta a lungo questo stato di cose. Da questo punto di vista, anch’essa è responsabile, almeno per quanto concerne la capacità di contrasto e di denuncia.
Non facciamoci illusioni. Sarà molto dura venirne fuori, e costerà enormi sacrifici, in particolare per quanti meno hanno. Resta indispensabile, per qualche tempo, affidarsi alla tecnocrazia che ci governa. Questa serve a tenere i conti in ordine, non alla crescita. Per una politica di espansione, tanto per intenderci di tipo keynesiano, occorrono mezzi finanziari che l’Italia non ha e non avrà nel breve andare. Ma col pagamento di tassi d’interesse sul debito così elevati come quelli che stiamo pagando, non saremo mai in grado di ridurre il debito sovrano. Per la contrazione del debito, e assieme per una politica di crescita, si deve far leva su di una forte patrimoniale, qualcuno dice di 400.000 miliardi. Ci sono, nelle disponibilità dei cittadini maggiormente abbienti e vanno prelevati, nell’interesse di tutti, con manovre fiscali ben mirate. Come anche si può intervenire nella composizione del debito, in mano ai risparmiatori solo nella misura del 14%, delle banche italiane per il 40% circa, e per metà in mano a investitori esteri, obbligando i percettori di redditi superiori a un certo livello, ad accettare parte della remunerazione in titoli di Stato. Sono soprattutto i possessori all’estero di nostri titoli, infatti, che possono originare speculazioni finanziarie capaci di innalzare lo spread e di minare, in tal modo, le nostre capacità di crescita. Non è un caso, al riguardo, che la speculazione finanziaria non colpisca il Giappone, che ha un rapporto debito/PIL attorno al 240%, detenuto però, per circa il 92%, dagli stessi giapponesi.
Non basterà nemmeno tenere i conti pubblici in ordine, riducendone l’ammontare complessivo, se non riusciremo a pesare di più in Europa. L’Europa, a sua volta, è ancora in parte legata ad interessi nazionali. Bisognerà tornare allo spirito originario, che dal manifesto di Ventotene, nato dal sogno di condannati al confino dal regime fascista, avvertono la necessità di creare, nel tempo, una comunità economica e politica europea in grado d’intendersi e di solidarizzare. La Storia ci ha sinora regalato la moneta unica ed una economia solo parzialmente integrata, comunque assicurando a tutti libertà e pace.
Tutto questo oggi non basta più. Occorre dar vita a istituzioni elettive, in grado di organizzare la politica estera, la difesa, la sicurezza, la finanza, la fiscalità, una banca centrale, la moneta unica, la giustizia sociale: in altre parole, una Federazione europea. Si tratta di un compito arduo che richiede un periodo di tempo adeguato. Ma fino a quando non riusciremo, come europei, a realizzarla, saremo esposti alle turbolenze internazionali dei mercati.
L’Italia in particolare deve cambiare. Deve rimuovere le incrostazioni e i privilegi. Deve ricreare il senso della collettività, della solidarietà, della legalità. Un nuovo senso dello Stato e del bene pubblico va ricostruito. Non sarà facile. Si tratta di mutare nel profondo la cultura di un Paese. Ma è da qui che bisogna ripartire, riscoprendo le radici che dettero vita alla Resistenza che ruppe quanto di vetusto e di antistorico era presente. Il “vento del nord”, prodotto allora dalla guerra di Liberazione portò all’eliminazione della monarchia prima e all’avvento della Costituzione poi, con tutti i valori che si porta dietro e che, ancor oggi, influenzano larghi strati della società.
Un nuovo spirito, teso alla ricostruzione morale e materiale del Paese, non può che trarre origine e motivazioni dalla lotta di Liberazione e dalla Costituzione, che assicura a tutti rappresentanza politica, partecipazione consapevole alle scelte, dignità della persona e del lavoro, giustizia sociale, solidarietà e pace.
L’ANPI, consapevole della drammaticità del momento, avverte la necessità di ripartire dal passato per gestire il presente e progettare il futuro. Nel 2011 si sono dilatati i nostri impegni, non solo per rievocare e celebrare le lotte dei nostri partigiani, che vanno mantenute, ma anche per affrontare le sfide di oggi. Sfide che non possiamo risolvere da soli. È in gioco il futuro dell’Italia, della nostra economia, della nostra democrazia. Amici dei partiti, dei sindacati, delle associazioni e dei movimenti democratici: occorre un impegno comune proteso verso il cambiamento. Per noi, per i giovani, per le generazioni future.