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Domenico Maione. Menomale che ho un tumore!
19 Marzo 2012
 

Il momento più bello delle giornate di Carmen era rappresentato da quei tre secondi dopo aver aperto gli occhi al mattino. Quando, ancora immersa nei sogni, non aveva ancora formulato una seria ipotesi su chi fosse veramente. Non aveva ancora una vivida cognizione della realtà. Poi la quotidiana fitta al petto: 900 euro di cassa integrazione e 550 di affitto. Alzarsi e chiedersi “perché?”. Detergersi il volto e chiedersi “perché?”. Urinare e chiedersi “perché?”. “Mamma, ti sbrighi? Il bagno serve pure a me!”, si palesa – senza risparmio di decibel – il primo “perché”, il primo motivo. Maria aveva fretta, doveva montare al bar. Ma il tempo per un bacetto al secondo “perché”, la sorellina Lucia, che alle 5:30 ancora dormiva, lo trovava sempre. Di tutto quel rossetto ne rimaneva sempre un po’ sulle gote di Lucia, la quale, meticolosa, prima di fare colazione, se lo spalmava con le dita sulle labbra. Quindi prendeva il latte solo previa minaccia di un ceffone “a mana smerza”, che di gran lunga superava il timore di cancellare l’artefatta somiglianza con l’idolatrata sorella maggiore. Alle 7:45, puntuale, Lucia era pronta ad imboccare la strada per la scuola, senza le manfrine cui danno luogo i suoi coetanei. Solo una volta aveva fatto storie. In prima elementare, per il suo compleanno, chiese in dono alla madre il grembiulino delle Winx e, per tutta risposta, si vide recapitare quello di “Teddy Pooh”, sfigato quanto illegittimo parente commerciale del popolare Winnie, che – a onor del vero – sulle bancarelle del mercato di via C. Miccoli, prima che questo diventasse l’anticamera di una discarica abusiva, forte del costo contenuto, era più venduto della maglia di Lavezzi (quella ufficiale, ovviamente…). A quel punto, per mettere fine ai piagnistei, Maria costruì una realtà parallela in cui il pezzottato “Teddy Pooh” era un vendicatore che si batteva in difesa degli indigenti, “cazzuto e fiero”. “Con quella specie di pigiama a pois?”. A Lucia non c’era verso di fregarla. Era meno bambina di quanto dovesse essere. Non perché avesse qualcosa in più degli altri, quanto perché aveva qualcosa in meno. Nella fattispecie un padre.

Anna, sono proprio contenta che non ti facciano lavorare più”. Collega di Carmen, Anna era anzitutto una sua grandissima amica. Anzi, una compagna. Perché erano comuniste, loro. Anna, detta “Albachiava” per antinomia, era stata marchiata a fuoco da una canzone degli Squallor (“Albachiava e tu non me la dai./ Ce l’hai nuova, che cazzo te ne fai?”), poiché femminista di ferro al punto da non essersi mai concessa ad un uomo. Era così di sinistra che: “La mano destra? Nemmeno per scaccolarsi”. Addirittura, un inverno lo passò indossando un solo guanto. Poi si rese conto di quanto fosse ridicola e allora… tolse anche l’altro. Inutile dire che si tingeva i capelli di rosso, quantunque stesse malissimo. A ben vedere, era così comunista che ci credeva veramente. Non abbisognava di nessun Dio e nessun uomo. Le bastavano le letture di Marx e un vibratore. “E perché mai?”. “Perché così mi accompagni a scuola, mi piace stare con te”, fu la risposta naif di Lucia. “Dobbiamo continuare a lottare. Anche quando le avversità si annunciano insuperabili. Anche se consci che non ce la faremo. In caso contrario, dovremmo ammettere di essere nati solo per morire”. Anna non era nata per morire ed era orgogliosissima di quel discorso tenuto davanti ai cancelli dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco, il “Giambattista Vico”. Da lì era uscita la mitica Alfasud del ‘73, la vettura guidata da Pasquale Ametrano in “Bianco, rosso e Verdone”. Lì venne prodotta la meccanica dell’Alfa Romeo Arna, berlina che fu a suo tempo ripudiata dagli alfisti per le sue linee orientali nonché apostrofata dall’establishment del biscione come la peggior operazione commerciale e industriale dell’azienda; ma che – di contro – può vantare un gettonatissimo post su “autodimerda.blogspot.com”, nei cui commenti qualche nostalgico, sebbene ne deprechi l’estetica, loda la comodità e la spaziosità dell’orrore postmoderno, “ideale per andare in ‘camporella’ a vent’anni”, laddove qualchedun altro amarcord addiviene alla paradossale conclusione che, come macchina, “faceva così schifo che era quasi bella”. Lì furono in ultimo assemblate le fiammanti 33, 155, 145, 146, 147, 156, 159 e GT, appartenenti alla gamma sportiva della casa, apprezzatissima al di là – in questo caso – dei sedili reclinabili. E sempre lì sarebbe stata presto avviata la produzione della nuova Panda nell’ambito del modello Pomigliano, “l’omaggio a Dickens da parte dell’amministratore delegato Marchionne”, così come lo definì Anna. “I turni di lavoro restano di 8 ore, ma i tempi di pausa si riducono del 25% rispetto a un incremento salariale medio pari a 30 euro lordi mensili. Vi rendete conto? Ci vogliono alienare fino alla vescica, vogliono comprare pure le nostre pisciate. Pesano sulla produzione, dicono. Inoltre, Fiat potrà ricorrere per due anni alla cassa integrazione straordinaria e, su decisione dell’azienda, ogni dipendente potrà essere chiamato a 120 ore di straordinario che possono diventare in taluni casi anche 200. Come se non bastasse, si riservano di non retribuire i primi tre giorni di malattia qualora si sospetti la malafede del lavoratore. Si sospetti, non si accerti. E, dulcis in fundo, tutte le controversie che potessero sorgere sul luogo di lavoro saranno giudicate da una commissione paritetica, ma l’ultima parola spetterà comunque all’azienda. Siamo alla follia. Saremo l’imputato in causa con lo stesso giudice. Ci concedono il diritto di avere torto”. Anna aveva votato “No” al referendum per l’attuazione del piano prospettato dai vertici del Lingotto, come il 36% degli aventi diritto, ma molti più di un 36% erano stati i plausi ricevuti, sentore che “la sedicente scelta democratica era stata – in effetti – percepita dai più come un ricatto: o accettate oppure ce ne andiamo all’estero”. Si era chiamati a scegliere tra le idee e il pane. Si scelse l’unica opzione tra le due che riempisse lo stomaco. Ma la maggior parte dei lavoratori non festeggiò. Fu la vittoria della sconfitta. Per produrre un’Alfa 147 serviva il doppio del lavoro utile a realizzare una Panda: mai e poi mai sarebbe stata saturata l’occupazione.

NOTA: Allo status quo, nello stabilimento di Pomigliano, si producono 900 vetture al giorno e il tetto della produzione è stato fissato da Marchionne a 1.050 al giorno. Al momento lavorano alla Panda 1.800 operai e in cassa integrazione ce ne sono ben 2.400. Mancano 150 vetture alla massima produttività giornaliera e, se per 900 vetture occorrono 1.800 operai, risulta inverosimile che per le restanti 150 riassumano gli altri 2.400. In compenso, parte di questi viene coinvolta in singolari “corsi di formazione”: si lavora al fianco dei reintegrati, sulle stesse auto dei reintegrati, svolgendo le medesime mansioni dei reintegrati; ma non si viene retribuiti. In più, le maestranze che non rispettano le cadenze della catena di montaggio vengono simpaticamente obbligate da superiori buontemponi a recitare il seguente mea culpa: “Song 'n' òmm' 'e merda”. “Sono un uomo di merda”.

Giusto per infierire, lo stesso Marchionne, in un’intervista al Corriere della Sera, a un anno dal referendum ammise: “Abbiamo tutto per riuscire a cogliere l’opportunità di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 siti dei 5 in attività”. Dalla sua nascita al 2009, la Fiat si è avvalsa di 7,3 miliardi di finanziamenti pubblici. Adesso, figlia ingrata, minacciava di andare via di casa. Era diventata grande. Nel corso del 2009, The Economist rilevò che la produttività annuale degli impianti italiani era di circa 29,5 auto per ogni lavoratore, contro le 79,7 delle fabbriche brasiliane e le oltre 98 degli impianti polacchi. Mamma Italia era vecchia. Troppa riverenza sindacale, troppe spese, troppi “fannulloni”. La relega all’ospizio era dietro l’angolo. “Mi spiace. Signora, lei ha la tessera della Fiom e questo rappresenta un problema”. C’era anche Anna la sera in cui l’assistente sociale dell’opificio automobilistico di Pomigliano proferì quella frase a Carmen, allorché ella sottopose il suo caso di vicissitudini economiche all’azienda in vista di un ritorno all’attività lavorativa che non aveva ostacoli formali. Oltre duemila reintegri, zero tesserati Fiom. Due possibilità: discriminazione o attentato alla teoria della probabilità. Alla stregua del tasso di uomini che porta la colazione a letto alla moglie dopo 40 anni di matrimonio, quando il movente sessuale è oramai sopito. Frattanto il Ministro del Welfare Fornero ben si guardò dallo spendere una parola in merito. Era oltremodo impegnato ad “offendersi” per il tatuaggio di una starlette, come se il suo fosse il ministero dello “stato inguinale”. Quella sera Anna pensò che “non siamo nati solo per morire” fosse soltanto una cosa bella da dire. Abbracciò Carmen e piansero. Assieme al cielo. Pioveva.

Albachià, ma che ci fai con questa bambina in barba alla tua conclamata verginità?”. Era la voce di Mimmo che, come al solito, giungeva inopportuna ad interrompere una riflessione. Mimmo era anch’egli un cassintegrato Fiat. Campione regionale di omofobia, in città divenne celeberrimo per aver coniato cotanto adagio: “Secondo me, dovrebbero uccidere tutti i gay. Perché so’ ricchiun!” (trad.: Dovrebbero uccidere tutti i gay perché sono ricchioni). Una prosa che avrebbe fatto accapponare la pelle al miglior Giovanardi. Era l’essenza che giustificava l’azione. Una spiegazione prenatale. Il frutto di un’innovativa e ardita esegesi della dottrina della predestinazione. La causa che incarnava nel contempo il motivo. Finalismo finalistico. Teleologia kantiana sine causa. Demenza. “Dove dovresti andare pure tu. A scuola!”. “Madonna, e come stai turbata! E se stasera ce jamm a piglià ‘na pizza insieme?”. “Piuttosto preferisco patire la fame”. “Fai semp ‘a difficil. E se io fossi miliardario?”. “Buon per te!”. Erano anni che Mimmo, appostato sul ciglio di un marciapiede, ordiva incursioni a scopo di possesso carnale ai danni di qualsivoglia essere vivente munito di vagina che, di passaggio, gli si appropinquava incautamente. Le sue “retate” si concretizzavano con un’invidiabile percentuale del 100% lungo la strada provinciale Pomigliano-Acerra. Dietro lo stabilimento in cui lavorava. Dietro una siepe. E dietro pagamento. Era un personaggio. Uno di quelli che uno scrittore inserirebbe certamente in un racconto, anche se non c’entra un granché ai fini dello svolgimento della trama. Vantava altresì la nomea dello sbafatore. A Pomigliano e nei paesi limitrofi non c’era inaugurazione con annesso rinfresco alla quale non presenziasse. Non c’era battesimo o matrimonio rientrante nella “mimmiana” giurisdizione che non avesse ricevuto la sua personalissima benedizione. Nel bar dove lavorava Maria si tramandava una leggenda secondo la quale ogni singolo pezzo della sua 146 fosse stato depredato all’azienda d’appartenenza e assemblato autonomamente dal re degli scrocconi. Per quanto il buon Mimmo avesse sviluppato l’inusitata capacità di reggere sette piatti contemporaneamente, prerogativa che lo rendeva un fuoriclasse del buffet e gli valse il nomignolo “Vishnu” (la divinità vidica con quattro braccia, nda), il compimento di un’impresa quale quella di cui sopra pareva comunque arduo. Ma Maria non guardava tanto alla veridicità. Le piaceva ascoltare quelle storie strampalate e farne racconti. Voleva fare la scrittrice. Era affamata e folle; non perché gliel’avesse suggerito Steve Jobs, ma nel senso letterale dell’espressione: a casa non si riusciva sempre a mettere insieme il pranzo con la cena, ma, nonostante tutte le tribolazioni, credeva – in maniera per l’appunto mentalmente insana – di realizzare il suo sogno. D’altronde, le era rimasto solo quello. A Maria la Fiat aveva portato via la cosa più bella che un’adolescente potesse avere: l’amore. Ogniqualvolta si accorgesse che sua madre era andata a piangere di nascosto nel bagno, la propria cotta adolescenziale le sembrava una grandissima “stronzata”. Ai tempi che furono, lo incrociava la mattina per strada, quand’ancora frequentava il liceo. Davanti alla bottega di un barbiere che, sulla soglia d’ingresso, con una mano brandiva Il Mattino e con l’altra era intento ad una censurabile pulizia manuale degli orifizi nasali. Gli aveva scritto pure una poesia. Finiva così: “Un uomo senza amore è come un uomo senza amore./ Non esiste metafora per esprimere questo dolore”. Maria era brava a scrivere, ma non era brava a consegnare bigliettini. Brutto affare: la poesia si poteva pure copiare, però il coraggio o ce l’hai o non lo puoi avere. Col coraggio non s’imbroglia. Così Maria era costretta a vivere venti metri al giorno, poi, capo chino a consegna omessa, faceva rotta ad Auschwitz…

Al liceo “Salvatore Cantone” di Pomigliano d’Arco mancava una sola cosa: la scritta “lo studio rende liberi”. Fino a qualche tempo fa c’era persino il filo spinato. Le palestre dell’edificio scolastico erano state concepite per essere garage e le aule sono cucine, camere da letto e bagni strappati al loro destino: in poche parole, hanno appioppato un condominio a malcapitati alunni che, stona a sentirsi, vagheggiano di generazione in generazione una scuola. Tra pilastri “egocentrici” (nel senso che si stagliano nel bel mezzo delle aule), imperiture infiltrazioni (che si sospetta celino improbabili falde acquifere), termosifoni “ambientalisti” (ostinati a non funzionare per patrocinare il mondo dall’effetto serra) e chi più ne ha più ne metta, – per il tetro scenario – verrebbe quasi da gettarsi da uno dei tanti balconi pericolanti (solo due anni fa messi a norma); ma non si può: ci sono le cancellate, vezzeggiativo di grate. Il problema di fondo risiede nella struttura, che è semplicemente adibita ad uso scolastico: al fine di rendere l’idea, è come se, essendo a secco di preservativi, per sopperire, si faccia ricorso a un palloncino. Magari, è a questa brillante intuizione che alcuni alunni dell’istituto devono la vita; ciononostante, il piano di evacuazione, scaturito dal medesimo principio, – in caso di eventi funesti – pone seri dubbi sulla prosecuzione della stessa. Poi c’è la signora Giovanna, una bidella che surclassa a pieno merito il Don Ferdinando di Così parlò Bellavista (il mitologico portiere metà sedia e metà uomo, nda), sminuendo il personaggio di De Crescenzo in qualità di sedia dalle sembianze antropomorfe. A parità di funzionalità, potrebbe essere sostituita da una pianta a fronte della garanzia di un ricambio d’ossigeno. Ma il caso narrativo più eclatante è senza dubbio rappresentato dall’ex insegnante di Lettere di Maria. Sedicente salvatrice di un all’epoca “biondo” (sic!) Pierò Pelù, in preda a uno shock anafilattico non prima di aver broccolato con lei, in base al lunatico umore divideva gli alunni in “Stumpo” e “Iannone”. Se appartenevi alla prima categoria, persino una tua non azione era passibile di richiamo: “Stumpo, oggi piove… (pausa teatrale)… È colpa tua!”. Se invece appartenevi alla seconda, potevi vederti recapitato un otto vago e retroattivo: “Iannone, ma tu il diciassette novembre non facesti quell’intervento su Pirandello?”. “Ma chi, io?”. “Sì, adesso ti metto un bel voto”. “Ok!”. Oppure un otto inconsapevole, alla Scajola: “Professoressa, posso essere interrogato?” domandò l’alunno alle idi di maggio, allorquando, non avendo mai aperto un libro dall’inizio dell’anno, ancora non annoverava una singola valutazione valevole per il secondo quadrimestre. “Macché, io già ti ho messo otto. Sappi che io i nove non li metto!” replicò l’alquanto stizzita professoressa che disdegnava l’etichetta di docente dalla “manica larga”. Finito il liceo, Maria avrebbe voluto iscriversi all’università, alla facoltà di Filosofia, ma tacque la cosa alla madre. Non voleva farla sentire impotente. Allora cominciò a ripetersi una bislacca massima: “La filosofia è quella scienza che, con la quale o senza la quale, tutto resta tale e quale”. Tante volte. Se ne voleva convincere. Prese la preclusione per diritto di nascita con… filosofia! In seguito, per rimpinguare di qualche centinaio di euro le esigue casse domestiche, andò a lavorare al bar della signora Caterina. Quest’ultima, quando le era possibile, elargiva sempre un extra “fuori mano”, in nero: era una brava donna, nei fatti di una bontà fiscalmente perseguibile. Conosceva Carmen da una vita. Sapeva del marito. Sapeva dei tre anni di cassa integrazione. Sapeva della discriminazione cui era stata soggetta. E sapeva del suo tumore.

Quella mattina l’acqua veniva giù dal cielo a catinelle. Lo squallido treno della Circumvesuviana era in ordinario ritardo. Il giorno prima fu malauguratamente puntuale, appiedando non pochi pendolari abituati ad aggiungere minimo un quarto d’ora all’orario prestabilito. Eccolo! Finalmente ma purtroppo: come da fedele tradizione, sarebbe stata più una deportazione che un viaggio. Una volta salita a bordo, Carmen chiuse il suo ombrello. Un attimo dopo lo riaprì: grondava pioggia dal tetto. Corpi accatastati, un tempo nemici intenti a contendersi ossigeno, confabulano timidamente di un’alleanza. Tra poco c’è la fermata di Salice. A pochi passi da lì si staglia un campo rom. Si decide di non confidare nella regolarità dell’altrui igiene personale. Per caricare la truppa, un italiota calciofilo s’improvvisa nazionalista e cita Caressa: “In questi momenti, ‘essere italiani conta di più’”. In sottofondo, i congiuranti immaginano all’unisono di udire We Will Rock You dei Queen. Il blocco all’entrata del vagone è massiccio, il coro riscalda la voce con qualche improperio xenofobo. Le porte si spalancano. “È pienoooooooooooo!”. “È pienooooooooooo!”. Tre clochard, in cerca di una barriera più abbordabile, battono frettolosamente in ritirata; una zingara tenta di farsi largo col carrozzino, poi, rassegnata, si aggrega ai compagni. L’attacco è sventato. Una vecchina di razza ariana domanda cortesemente di unirsi alla compagnia. Il misericordioso frangiflutti umano accoglie l’istanza. Autogol! La tenera anziana è Rosa Gargiulo, meglio nota come “Rosetta ‘a fetosa” (trad.: Rosa la puzzona). Il razzismo non ha pagato. Illuminante, una verità precipita dall’Iperuranio. Gli uomini sono uguali. La prova ontologica è presto detta: tutto il mondo “fete”. Puzza.

Stazione di Porta Nolana: fine dell’Odissea! Uno spazio decisamente meno angusto e maleodorante era lo studio del Dott. Cerbone. “Si sente al tatto, ma come ha fatto a non accorgersene? E pensare che noi organizziamo visite di prevenzione su visite di prevenzione!” sbottò l’imbufalito oncologo. “Suo marito non gliele tocca le tette?” seguitò a domandare sfrontato l’imbufalito oncologo. “Mio marito è andato via di casa 10 anni fa”. Tacque l’imbufalito oncologo.

Carcinoma lobulare infiltrante. L’operazione e poi il calvario dei cicli chemioterapici. “Carmen, ‘stu tumor è stato ‘nu tern al lotto”. Fu questo il verbo di Mimmo non appena seppe della pensione d’invalidità civile e dell’indennità d’accompagnamento. Carmen sorrise. Era la prima volta, paradosso nel paradosso, che Mimmo diceva qualcosa di assennato. In effetti, con quegli “introiti”, Lucia ebbe modo di ricevere un regalo di compleanno confacente alla propria richiesta e Maria poté ridurre i turni al bar e iscriversi all’università. Successivamente, scrisse un romanzo. S’intitolava “Menomale che ho un tumore!”. Vendette 700mila copie. Excuse me: happy ending troppo mielato. Facciamo, coup de théâtre, che Mimmo muore di Aids.

 

Domenico Maione


 
 
 
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