Domenica 11 marzo è tornata alla Sala di Milano l’opera di Richard Strauss che il musicista considerò sempre la più riuscita fra quelle nate dalla sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal: Die Frau ohne Schatten [La donna senz’ombra]. Dopo un primo abbozzo risalente al 1911, Hofmannsthal abbandonò e riprese più volte il lavoro al libretto, portandolo a termine nel settembre del 1915. L’opera nacque dunque negli anni della Grande Guerra che Hofmannsthal aveva inizialmente favoreggiato, pensando che così si sarebbero potuti risolvere i problemi della monarchia asburgica. Invece il conflitto segnò il crollo della compagine danubiana, e dal 1918 in poi Hofmannsthal non cessò di rimpiangerla, auspicando che fosse possibile mantenere viva l’unità dei suoi multiformi elementi almeno sul piano di una comunità culturale mitteleuropea. Anche perché nata in piena guerra, la Frau ohne Schatten è attraversata da un profondo desiderio di pace e di armonia.
Musicista e poeta aspettarono però la conclusione del conflitto prima di presentare l’opera al pubblico. La prima ebbe infatti luogo il 10 ottobre 1919 all’Opera di Vienna, diretta da Franz Schalk che poté contare su un’orchestra eccellente e su un cast di cantanti assai noti (fra cui Maria Jeritza, Lotte Lehmann e Richard Mayr). Le reazioni non furono entusiastiche. La musica di Strauss piacque molto di più del libretto di Hofmannsthal, ma, in generale, l’opera venne accolta con assai minor favore del Rosenkavalier e resta ancor oggi assai meno popolare di quest’ultima.
La Scala la presenta ora per la quarta volta: dopo una prima edizione nel 1940 (direttore Gino Marinuzzi, regista Mario Frigerio) l’opera era stata presentata altre due volte nell’allestimento registico di Jean-Pierre Ponnelle, nel 1986 diretta da Wolfgang Sawallisch e nel 1999 da Giuseppe Sinopoli. La nuova regia di Claus Guth, originale, certo, ma non priva di una serie di banalità, non mi è sembrata all’altezza della complessità simbolica di quest’opera, invece magistralmente diretta da Marc Albrecht e stupendamente interpretata dai cantanti, ai quali sono andate le ovazioni del pubblico.
L’opera, suddivisa in tre atti e ambientata in uno spazio e in un tempo indefinibili come tutte le fiabe, è un inno alla concordia e soprattutto all’amore coniugale e al suo coronamento nella figliolanza. Il primo atto è l’atto della minaccia. L’imperatore di alcune isole sudorientali è sposato con una “figlia di fata” che si è conquistato a caccia, quando, dopo aver ferito al collo una gazzella bianca, dall’animale è uscita una bella giovane, la figlia del re degli spiriti Keikobad. Da quando è moglie, però, la donna ha perso il suo amuleto e con esso la sua capacità di trasformarsi, ma non appartiene neppure del tutto al mondo degli umani, perché non getta ombra (ossia non ha consistenza fisica) e quindi non può generare figli. Suo padre Keikobad, infuriato, manda un messaggero alla nutrice della figlia, avvertendola che se l’imperatrice entro tre giorni non getterà ombra, egli si vendicherà, pietrificando l’imperatore. La donna è dunque sospesa fra due mondi: quello sovrannaturale, che ancora decide di lei, e quello umano che però non l’ha ancora accolta davvero. Per questo la colpa ricade sull’imperatore, che per egoismo l’ha esclusa di fatto da entrambe le sfere. L’imperatrice decide allora di procurarsi un’ombra, costi quel che costi. Per raggiungere il suo scopo ricorre all’aiuto della “mefistofelica” nutrice che la porta con sé fra gli uomini, nella casa del tintore Barak. Costui lavora per mantenere la sua giovane moglie insoddisfatta e tre fratelli (uno con un solo occhio, l’altro con un solo braccio, il terzo con la gobba). Gli farebbe piacere avere a suo carico anche una schiera di figlioli, ma finora anche il suo matrimonio è rimasto privo di prole. La nutrice e l’imperatrice, travestitesi, si offrono come serve al tintore, e la perfida nutrice capisce subito che la tintora è facilmente disponibile a barattare la propria ombra in cambio di belle vesti e gioielli e la promessa di un giovane amante. Dopo aver allettato la tintora, la nutrice fa comparire cinque pesciolini perché la donna prepari la cena al marito; ma mentre la tintora, rimasta di nuovo sola, frigge i pesciolini, sente le voci gementi dei suoi “non nati”, dei figli che si è preclusa la possibilità di generare, che la invocano come madre. Quando Barak torna dal lavoro, trova la moglie sconvolta e il letto coniugale diviso, mentre fuori risuona da parte di una ronda un inno all’amore coniugale, primo veicolo di armonia individuale e collettiva:
Ihr Gatten, die ihr liebend euch in Armen liegt,
ihr seid die Brücke, überm Abgrund ausgespannt,
auf der die Toten wiederum ins Leben gehen!
Geheiligt sei eurer Liebe Werk.
Voi sposi che tra le braccia l’un dell’altro giacete
siete il ponte, lanciato sull’abisso,
sul quale i morti di nuovo in vita tornano!
Santificata sia dell’amor vostro l’opera.
Fra Barak e la moglie ormai è separazione, anche se il tintore spera paziente che prima o poi le ubbie e i capricci di sua moglie abbiano fine.
Nel secondo atto, l’atto della seduzione, si creano le premesse per dare avvio al processo di purificazione delle due coppie, ossia quella di Barak e della tintora, zu trübe irdisch [troppo cupamente terreni] e quella dell’imperatore e di sua moglie, zu stolz und fern der Erde [troppo fieri e lontani dalla terra]. La nutrice-maga-strega fa comparire il fantasma di un giovane aitante che ammalia la tintora, la quale insoddisfatta del marito, sembra cedere alla tentazione, salvo poi fermarsi prima di compiere adulterio. L’imperatrice, invischiata in questo gioco, innocente e colpevole ad un tempo, è perseguitata da dubbi e incubi in cui vede il marito in un progressivo processo di pietrificazione. Pian piano prende così pietà del tintore, ingannato a sua insaputa perché lei si possa realizzare, e si sente in colpa. Arriva intanto la terza notte, durante la quale la tintora confessa al marito di averlo tradito e di aver venduto la propria ombra e con essa la possibilità di procreare. Barak si trasforma allora in un potente giudice: dal cielo cala una spada con la quale egli dichiara di voler uccidere la moglie fedifraga. La nutrice si fa insicura, perché vede in gioco forze soprannaturali che sfuggono al suo potere. Barak è pronto a trafiggere la moglie, che però, vinta dal suo amore, gli si getta ai piedi e gli chiede perdono. L’imperatrice decide allora di rinunciare all’ombra. La terra si apre e inghiotte i tintori, la loro casa crolla, mentre, sempre per magia, appare un corso d’acqua con una barchetta, sulla quale la nutrice depone l’imperatrice, avvolgendola nel suo mantello.
Nel terzo atto, l’atto della duplice redenzione, l’imperatore è ormai divenuto una statua di pietra. Sulla terra, la tintora, pentita del suo comportamento, tenta di raggiungere Barak, che a sua volta la cerca; alla fine gli sposi, entrambi disperati per la separazione, si ritrovano e si riconciliano. Di fronte all’imperatore pietrificato l’imperatrice trova in sé la forza di entrare nella caverna in cui sgorga la fonte dell’“acqua della vita”, ma rinuncia a berla e sceglie invece di andare dal suo sposo per morirgli accanto. Il suo gesto d’amore la redime: all’improvviso getta un’ombra e quindi può generare. Il suo sacrificio fa sì che anche il marito torni in vita. Il messaggero di Keikobad condanna invece la nutrice a vagare nel mondo degli uomini, che ella disprezza. Sia la tintora sia l’imperatrice hanno cioè superato difficili prove interiori che le hanno fatte diventare donne a pieno titolo: uscite dalla confusione della “pre-esistenza”, sono diventate mature per la Vita. Le due coppie ricongiunte intonano alla fine un inno d’amore, cui si unisce il canto dei bambini non-nati, desiderosi di entrare nel mondo.
Molte furono le fonti a cui Hofmannsthal si ispirò per questa sua magica “fiaba”. Innanzitutto la commedia dell’arte e l’opera di Carlo Gozzi: nei primi abbozzi del testo i tintori si chiamavano non a caso Smeraldina e Arlecchino, mentre i nomi di Keikobad e Barak sono ripresi dalla fiaba di Turandot – rielaborata già da anche da Friedrich Schiller e resa poi famosa per la modernità da Giacomo Puccini. Per il mestiere di tintore, Hofmannsthal si rifece invece a un’altra fiaba di Gozzi, ossia I pitocchi fortunati.
Altra fonte d’ispirazione importante sono poi i racconti delle Mille e una notte. Nel 1907 era uscita per la prima volta presso la casa editrice Insel l’edizione completa delle novelle delle Mille e una notte in 12 volumi. Si trattava di una traduzione dall’inglese di Felix Paul Greve per la quale Hofmannsthal aveva scritto l’introduzione. Ne La donna senz’ombra si sente ovunque l’entusiasmo del poeta per quest’opera, non solo per via della generale atmosfera favolosa e orientaleggiante, ma anche per mille dettagli e citazioni dirette. Le figure dei fratelli di Barak, per esempio, sono modellate su quelle dei tre mendicanti della storia del Facchino di Bagdad, mentre il verso con cui la tintora si giustifica con Barak, Ich hab es nicht getan! [Non l’ho fatto], è tratto dalla Storia dell’acquaiolo e della moglie dell’orafo, che parla di un adulterio non compiuto. E gli esempi potrebbero continuare.
Importante per la gestazione del testo è poi Goethe. Innanzitutto la nutrice presenta molti tratti comuni al Mefistofele del Faust: come questi fa con Margherita, anche la nutrice induce in tentazione la tintora con gioielli e belle vesti; come Mefistofele perde ogni potere di fronte alla fede di Margherita, così la nutrice si vede costretta a battere in ritirata non appena intervengono forze sovrannaturali che sfuggono alla sua pertinenza. Ma importante modello goetheano è anche il Märchen, la Fiaba, che Goethe pone in chiusura delle Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten [Colloqui fra emigrati tedeschi]. Da questa fiaba, volta a indicare il superamento di ogni minacciosità derivante dalla guerra o dalla disgregazione familiare, Hofmannsthal riprende l’idea di una realtà ripartita fra Dei e Demoni, oltre a tutta una serie di dettagli: i bambini, i sacerdoti, il palazzo in contrasto con la capanna ed altri particolar ancora.
Non va poi dimenticato Mozart. Come il Rosenkavalier aveva voluto in qualche modo essere la continuazione de Le nozze di Figaro, così, con la Frau ohne Schatten, Hofmannsthal intese riagganciarsi direttamente alla Zauberflöte [Flauto magico] di Mozart/Schikaneder e narrare la storia della purificazione di due coppie che, come nella commedia classica, appartenevano a due diversi ceti. Molte sono le affinità con Il flauto magico, molte però anche le differenze. Nell’opera di Mozart si passa dall’ambito negativo della Regina della notte e della superstizione alla realizzazione, con Sarastro, di un ideale fatto di verità, tenacia, bellezza e saggezza, che tenta di escludere da sé ogni elemento di bruttezza, viltà e piaggeria. Nella Donna senz’ombra invece si passa dalla sterilità alla fertilità, intese, ovviamente non soltanto nella loro concretezza fisica; le due coppie si liberano cioè del loro egoismo e diventano disposte a fare dono della vita ad altri.
La Donna senz’ombra vive inoltre della lunga tradizione del teatro popolare viennese, di quel Volksstück che all’inizio dell’Ottocento aveva assunto dignità letteraria con Ferdinand Raimund, il quale lo aveva epurato da ogni sorta di volgarità e lo aveva caricato del tratto consolatorio del portentoso. Fondando con Max Reinhardt e Hermann Bahr il Festival di Salisburgo nel 1920, Hofmannsthal si rifece esplicitamente all’opera di Raimund, caratterizzata quasi sempre, come la Frau ohne Schatten, da un mondo sovrannaturale e da uno terreno, dall’intervento del prodigio imperscrutabile nell’umana quotidianità. E se in Raimund si assiste per così dire alla “letteralizzazione” del dramma popolare, con Hofmannsthal si arriva alla sua “cerebralizzazione”.
Molte altre fonti letterarie ancora si possono aggiungere a cui l’autore si rifece per La donna senz’ombra. Il motivo della giovane vanitosa che rinuncia alla maternità per rimanere bella, è ripreso dalla poesia di Lenau Anna, mentre quello della caverna si riallaccia all’iniziazione del protagonista del romanzo di Novalis Heinrich von Ofterdingen. Numerose sono anche le citazioni riprese dalla Bibbia: prima fra tutte la gazzella, che evoca il Cantico dei Cantici.
Una pluralità di intuizioni, dunque, sta alla base di questo libretto, non un unico modello, come nel caso di Elettra. Perché nella Donna senz’ombra si assiste al trionfo dell’‘allomatico’, un termine inventato da Hofmannsthal per caratterizzare la propria poetica e che consta nell’amalgama di tutti quegli strani coinvolgimenti e di tutte quelle strane confuse e relazioni (tradotte nella mescolanza di ricchezza e povertà, di dimensione umana e sovrannaturale, di luce e buio, di finito ed infinito, di oriente e occidente) che determinano ineluttabilmente il destino di ogni uomo. Data questa rete di coinvolgimenti in cui è avviluppato, l’individuo è solo molto parzialmente libero di determinare il proprio cammino e ed è sempre costretto a pagare la propria redenzione al prezzo di grandi sofferenze. La Donna senz’ombra è una delle tante figure hofmannsthaliane sospese fra la vita e la morte, che si muovono in uno spazio intermedio fra la “pre-esistenza” e la “Vita” e si trovano a scegliere, a decidere se uscire o no dal caos dell’indistinto, fascinoso quanto pericoloso, e trovare se stesse in una relazione con il prossimo liberata dall’improduttività del narcisismo.
L’intero opus di Hofmannsthal è attraversato dalla coscienza che in ogni uomo agiscano energie disgreganti, alle quali è necessario opporre il potere coesivo di un ordine, da ricercare, oltre che dentro la propria anima, nelle istituzioni, nella famiglia, nel rifiuto di ogni anarchico sperimentalismo sia nella vita sia nell’arte.
Il complesso libretto de La donna senz’ombra, come si è detto, fu tuttavia oggetto di molte critiche, per cui Hofmannsthal portò a termine, in seguito, il racconto omonimo, scritto in una prosa di estrema bellezza linguistica. Strauss, invece, non solo fu sempre convinto del valore della sua partitura, ma anzi considerò La donna senz’ombra la sua opera più importante.
Insomma: anche quest’opera causò non poche tensioni ai due autori, tanto che a questo lavoro seguì una pausa di anni nella collaborazione fra il poeta e il musicista. Solo nel 1924 fu realizzato dai due artisti un altro dramma sul matrimonio, questa volta in chiave mitologica, Die ägyptische Helena [Elena egizia] che, a mio parere a giusta ragione, ebbe assai poco successo.
Solo con l’ultimo frutto del loro lungo sodalizio, Arabella, opera attraversata dal rimpianto dell’impero e dal desiderio di mantener viva almeno sul piano ideale l’unità della cultura mitteleuropea, Strauss e Hofmannsthal tornarono a produrre una vera opera di successo. Ma il poeta morì proprio il giorno in cui ricevette da Strauss il telegramma, in cui il musicista si congratulava per la conclusione del terzo e ultimo atto.
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