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Nuovi incontri/ In gran segreto a Ferrara: intervista a Giancarlo Pontiggia 
A cura di Matteo Bianchi e Alessandra Trevisan
Giancarlo Pontiggia. Foto di Alessio Branchini
Giancarlo Pontiggia. Foto di Alessio Branchini 
02 Marzo 2012
 

Due forti direttrici della sua poesia sono l’abbandonarsi nei toni e nei tratti non fraintendibili della natura e un continuo domandarsi “dove si va”. Perché allora la ricerca instancabile di un Assoluto e non la realtà che si corrompe di una città come Milano, cantata da molti poeti della sua generazione? Come trasfigurare dunque la vita in versi?

La modernità, in Italia, nasce alla confluenza di Baudelaire e di Pascoli, un poeta della città e un poeta della campagna: chi è più moderno dei due? Entrambi, naturalmente, perché la modernità non è data dai contenuti, ma dalla forza rabdomantica di una visione, di una lingua. Anche le geografie poetiche valgono solo in virtù dell’intensità con cui certi nomi sono pronunciati, dell’energia trasfigurante che essi sono in grado di irradiare: Parigi o San Mauro di Romagna, in poesia, non fa differenza. Nessun cielo, forse nemmeno quelli portentosi dell’Egeo greco, possono già dirsi poesia: devono diventarlo, al pari di un pluvioso cielo spleenetico di Baudelaire, per un’intima adesione di chi guarda, e sente che ciò che sta guardando lo precedeva, era lì da un tempo più remoto di ogni suo pensiero, attende solo di farsi ritmo, visione.

Detto questo, la Natura non è (non sarà mai) una forma di evasione, semmai un prodigioso contenitore di immagini su cui si è strutturata la nostra anima fin dai tempi più remoti: chi guarda un albero, il suo tronco nodoso, le sue fronde scosse dal vento, o vibranti di luce primaverile, vede la nostra facoltà immaginatrice mentre si apre al mondo, e gli sbatte contro, riconoscendolo come una parte di sé.

 

Conte definisce la Sua poesia «densissima», noi potremmo anche dire «ombrosa». Lei misura il tempo attraverso immagini di luce tangibile e lo spazializza con una metrica rigorosa. Ciò ha a che fare con la poesia della latinità – e ha molto a che fare con il ritmo del verso, la capacità di spezzarlo dove necessario, e di donargli musica. Ma è anche un modo di non etichettare la realtà.

Milo De Angelis ha scritto recentemente che una «forza umbratile» percorre tutti i miei versi, interpretando il mio legame con l’ombra – presenza costante, non c’è dubbio, della mia poesia – non solo in termini naturalistici, ma anche come un reiterato colloquio con «le ombre». È una lettura penetrante, che tocca probabilmente una verità profonda del mio essere, e dunque della mia poesia: la sensazione che ogni forma di vita – anche la più straripante, la più rigogliosa, la più densa e felice vorrei aggiungere – già contenga il suo perdersi rovinoso, inevitabile. Forse per questo amo, fin dalla più lontana fanciullezza, l’ora del meriggio, quando l’ombra pare assorbita dai cieli e dalle terre, e il tempo sostare per un attimo, toccare i confini del non-tempo. L’immagine archetipica che riconosco più mia, e di cui s’è imbevuta tutta la mia poesia (non parlo – com’è ovvio – di contenuti, ma di forme percettive), è certamente il confine tra luce e l’ombra: un confine mobile, sebbene gli occhi possano illudersi ogni volta che esso resti incrollabilmente fisso. Vi sono però grato, soprattutto, di una annotazione, che per certi aspetti riassume la mia idea di poesia: misurare il tempo attraverso immagini di luce; spazializzarlo con una metrica rigorosa. Tradurre il sentimento del tempo, che è di per sé inafferrabile, in una geometria di spazi, è proprio il modo con cui mi è capitato qualche anno fa di descrivere la mia poesia, che avevo paragonato a una casa romana di impianto ellenistico e tardo-repubblicano, con quella sua eccezionale convivenza di verticalità (la luce che spiove dall’alto) e di orizzontalità, di esterno e di interno (dove l’esterno è anche il cielo che penetra dal displuvio, ma sono anche i prodigiosi affreschi di tema naturalistico che fanno concorrenza, nelle stanze o nei porticati del peristilio, alle stagioni). Il passaggio dall’immagine al verso, inevitabilmente, impone non tanto una metrica (che per noi, novecenteschi, non può più essere un obbligo, semmai un’opportunità, o forse – ancor più – un legame con la nostra lingua e la nostra tradizione) quanto la necessità di tracciare perimetri di forme necessarie: necessarie, s’intende, per esprimere la nostra più sentita, e accesa, percezione delle cose del mondo.

 

Il “miele” di cui lei si nutre per comporre poesia, un correlativo oggettivo che ritorna in tutta la sua opera, cosa rappresenta? E in relazione alla sua ultima antologia di autori emergenti, Il miele del silenzio, edita da Interlinea nel 2009?

Il titolo di quell’antologia non è mio, ma è tratto da una poesia di Matteo Veronesi, che invito a rileggere per il valore simbolico che possiede: un miele che sgorga dalle «piaghe» della parola contemporanea, da una storia ferita e disarticolata. Non a caso Veronesi stesso, in un suo scritto, ha evocato la figura del Filottete di Gide: un uomo ferito, umiliato dai casi della vita, che nondimeno cerca di mutare in canto le sue piaghe e i suoi lamenti. Certo, le immagini di una poesia – quando di vera poesia si tratti – non si esauriscono soltanto nel loro significato più evidente, se non emblematico, ma riattivano strati profondi. «Miele» è – ai miei occhi, s’intende – una di quelle parole che hanno il compito di orientare immaginosamente la lettura, di sospingere un’intuizione poetica ben oltre i cancelli di un’invenzione privata, facendola sfolgorare della luce di altre poesie e figurazioni, moderne o antiche non importa, intessendo trame che sfuggono a volte alla nostra stessa percezione della realtà linguistica. Permettetemi di leggere uno dei testi che mi sono più cari, e che è nato per caso, un giorno, passeggiando tra le navate circolari dell’antica Basilica milanese di San Lorenzo, mentre fuori, tra le strade e gli asfalti della città, trionfava una luce già quasi estiva:

 

Scorreva la vita come un miele

troppo dolce, troppo forte. Salivano

ai grandi cieli, vasti come il tempo, sacri

come un’icona, gridi

di una vita frastornante, sospesa. Abbacinàti

gli occhi stupivano. Il cuore no. A un giorno

 

più scuro, segreto, pensavo, alla gemma

chiusa in un suo torpido sonno, al frutto

 

che marcisce, stordito, tra le fronde.

 

Non credo sarei mai riuscito ad esprimere questo segreto legame che è fra il nascere e il morire (il marcire), se non mi fossi imbattuto per caso nell’immagine-archetipo del miele, immagine-preludio che già in sé comprendeva il seguito della poesia: solo da quel miele in cui è un eccesso di dolcezza e di forza (e dunque di percezione, di sensibilità) potevano sprigionarsi nuove immagini che spingevano all’indietro, verso le origini scure, abissali del tempo: quei vasi da cui scorreva il miele della vita erano certi vasi pestani che avevo visto una volta nel bellissimo museo di Paestum, ancora contenenti un miele scurissimo e indurito, ma che io avevo immaginato – all’epoca – mentre colava ancora liquido, durante i pubblici sacrifici che avevano condotto a interrare il sacello eroico del fondatore della città, e dentro di esso quei vasi giunti fino a noi: miele-vita, destinato a un mondo di morti. E le pareti ombrose, così piene di sacro silenzio, della Basilica di san Lorenzo, in Milano, non conferivano forse una sorta di nuovo battesimo a quel miele così remoto? Approdavo insomma, con il cuore, al tempo in cui nulla è ancora, e in cui pure è già tutto previsto, anche noi che siamo qua, e che parliamo di poesia e di tempo, di ciò che è e che non è, sulla soglia di quell’inattingibile confine – parmenideo mi verrebbe ora da dire – in cui essere è pensare, e le cose sembrano intrise insieme di luce e di notte, di niente e di tutto. È questo, forse, l’impulso primo che mi spinge – ogni volta, indipendentemente dai contenuti – verso la poesia. E i luoghi – così come gli oggetti, i pensieri, le figure – si rivelano come depositi di intuizioni sepolte nella nostra memoria, esistenziale e poetica, che aspettano soltanto di essere rivitalizzati in una sequenza ritmica e immaginosa.

 

Le Soste di Bosco del tempo, poi le Stazioni milanesi come luoghi dell’anima. Se la poesia è diventata la Sua pausa per riprendere fiato, il luogo privilegiato in cui rivisitare un tempo irreversibile, uno spazio coerente nella forma che si eleva a Stile, leggendola abbiamo pensato: lei ha mai scritto per non vivere?

Mi pare sia stato Montale, da qualche parte, a dire che l’arte supplisce, in chi la fa, alla vita, quasi sostituendola. Probabilmente la sua poesia ha avuto bisogno, per rivelarsi, di attraversare una dimensione (una percezione interiore) di non-vita: che però ci interessa in virtù di altissime poesie che scavalcano sempre il dato esistenziale immediato. Montale, in fondo, resta in ogni suo libro il poeta del «prodigio fallito» di Crisalide: lo scacco esistenziale si fa percezione di uno scacco metafisico: senza quel salto, gli Ossi di seppia resterebbero al livello dei libri dei Novaro, niente di più. Ma non credo si debba generalizzare su questo tema, sostanzialmente di derivazione romantico-decadente: l’artista come un inetto alla vita, che però sa solcare (come l’albatro di Baudelaire) i grandi cieli dell’ispirazione. Vero è semmai il contrario: la poesia non può non nutrirsi di vita vissuta, di esperienze, di vicende concrete e reali. Soltanto, ci chiediamo ogni volta, cos’è reale? Le esperienze oniriche sono meno reali di quelle che facciamo da svegli? La visione di un cielo immutabile è meno reale di quella di una città assordante di suoni e di volti? La campagna di Pascoli è meno reale della Londra di Eliot? La poesia è sempre una celebrazione della vita, ma bisogna intendersi su che cosa intendiamo per vita, e se la cosiddetta vita attiva sia un vivere più intenso – per richiamare un celebre dibattito umanistico – di quella contemplativa. Le sette soste che cadenzano Bosco del tempo vanno lette alla luce della metafora-guida del libro, che è quella di un tempo-bosco in cui si cammina – perdendosi o ritrovandosi – come in un labirinto, che è quello della vita stessa. In Stazioni, invece, ogni sequenza ha a che fare con una città vera, con i suoi nomi e le sue figure, la sua vitalità febbrile, il suo allegro anarchismo, le sue passioni celate come un delitto, le sue indegnità vendute come se fossero una necessità della Storia. Che cosa accomuna queste soste-stazioni? Forse l’idea che la parola, per essere profonda, ha bisogno di indugi, di spazi meditativi, di respiri trattenuti: solo chi sosta vede; solo chi staziona in un luogo può comprenderne la sua più autentica natura.

 

Scorrendo le sue poesie, anche graficamente, a volte sembrano fragmenta della lirica greca: non crede che questo legame di cui va fiero con il passato remoto, diretto alle origini greche e latine della nostra lingua, possa penalizzare il suo rapporto con la presente sperimentazione, e quindi con il futuro? Non crede che sia necessario rappresentare il presente per ciò che è?

Questa domanda dà per scontato che i poeti debbano essere assolutamente moderni, e soprattutto che la modernità coincida con un certo tipo di sperimentazione, il che ovviamente non è. Prendiamo gli anni Cinquanta: probabilmente tutti avranno pensato, in quel momento, che Laborintus era più en avant delle poesie di Caproni per la madre-fidanzata Annina Picchi, con le sue facili rime in –are. Ma chi, oggi, avrebbe il coraggio di confrontare la qualità poetica di Sanguineti con quella di Caproni? Nondimeno questa osservazione sarebbe ancora insufficiente, perché darebbe per scontato che esiste davvero, in ogni epoca della storia, una modernità che si scontra con il suo opposto. Ma non è così: noi non possiamo mai essere antichi, neanche se lo volessimo spasmodicamente. La stessa nostalgia dell’antico è un’invenzione della modernità, un modo – anzi – della nostra modernità. Il ridimensionamento storico di tutte le forme dell’avanguardia, dipende solo dalla loro ingenua pretesa di voler rappresentare la modernità, di voler sostituire alla nozione di qualità poetica quella di modernità poetica. Ma nessuno può dirsi moderno (o più moderno di altri), come nessuno può dirsi antico (o più antico di altri): siamo tutti moderni, viviamo tutti nello stesso magma linguistico. L’unico metro di giudizio è la qualità poetica che siamo capaci di esprimere. Ritorniamo agli esempi della storia. Leopardi, al suo tempo, fu guardato come un attardato classicista dai presuntuosi poeti romantici di Milano: ma noi oggi leggiamo Leopardi, non Berchet; così come leggiamo Montale e Rebora, fra gli autori del primo Novecento, non certo Buzzi e Marinetti. In ogni caso, i poeti non dovrebbero mai avere la tentazione di «rappresentare il presente»: una vera debolezza, spesso indotta da un peccato di ignoranza: non possedere il vasto respiro della storia; limitarsi agli esempi di una contemporaneità stretta, caotica, ancora priva di identità storiografica.

 

Il suo rapporto con la professione di traduttore.

Ma è poi una professione? Dico per me, naturalmente: tranne il Sade che feci giovanissimo, ho sempre tradotto quel che mi appassionava. Tradurre è un atto misterioso: a volte è un esercizio sulla lingua; a volte un vero e proprio esercizio di sensibilità, durante il quale ci misuriamo con qualcosa che ci soggioga per la potenza del pensiero e della forma. Nondimeno, alcuni libri resistono a ogni nostro assalto, non accettano di farsi tradurre: per l’Agricola di Tacito, libro da me amatissimo, feci vent’anni fa un contratto editoriale con SE, senza mai poterlo onorare. Non trovavo lo stile giusto, uno stile che rendesse il rigore, la misura, la concitazione, l’intelligenza assoluta della prosa tacitiana. Talvolta ci capita di penetrare con una facilità perfino sorprendente nella lingua di uno scrittore; in altri casi restiamo come paralizzati, quasi increduli, dinanzi a esiti troppo alti, forse irraggiungibili; e non è detto che i poeti siano più difficili da tradurre di un prosatore. Chi è il perfetto traduttore? Idealmente, colui che sa fondere il massimo della conoscenza storico-filologica con il massimo dell’istinto, dell’adesione entusiastica. E poi occorre il tempo, il sacro tempo da buttare, da sperperare, magari facendo altro, o fingendo di fare altro: i latini lo chiamavano otium.

 

 

ingransegreto.wordpress.com


Foto allegate

Matteo Bianchi e Giancarlo Pontiggia. Foto di Alessio Branchini
Giancarlo Pontiggia e Alessandra Trevisan. Foto di Alessio Branchini
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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