Dobbiamo ad Ascanio Celestini alcune “elementari” verità che, proprio perché “elementari” e accecanti, si tende a non vedere, a ignorare. Chi sono gli “ospiti” delle prigioni italiane?, si chiede Celestini. Quaranta su cento sono immigrati, ecco chi sono. E qui viene la prima, interessante, questione: «In Francia e in Gran Bretagna», nota Celestini, «gli stranieri sono arrivati molto prima che da noi. Eppure nelle loro carceri non arrivano al 20 per cento». In Italia arrivano immigrati con più alta vocazione delinquenziale? Oppure «perché da noi per loro è tanto facile finire in galera? Forse perché nel nostro paese l’80 per cento dei migranti regolari sono stati irregolari? Forse perché la legge mette i migranti in una condizione di irregolarità permanente che permette ai nostri concittadini di sfruttarli?». Chi vogliamo ringraziare, per questa situazione? Facciamo due nomi? Umberto Bossi, Gianfranco Fini? E magari, tanto per metterci avanti coi ringraziamenti, estendiamoli a Francesco Rutelli.
Non è il solo interrogativo che Celestini ci invita a risolvere. Un buon 30 per cento di detenuti, osserva, «sono tossici che nel tempo in cui restano chiusi in gabbia passano 22 ore su 24 a risolvere il proprio problema giornaliero con la droga. Se hanno un po’ di soldi se la procurano, altrimenti si sballano infilando la testa in un sacchetto di plastica, sniffano un po’ di gas dalla bomboletta del fornelletto e spesso vanno ad arricchire il numero dei suicidi…». Chi vogliamo ringraziare, per questa situazione? Facciamo ancora altri due nomi? Ancora Fini e Carlo Giovanardi.
Ma torniamo a Celestini: «Qualcuno mi dirà che in fondo questi soggetti hanno infranto le regole e meritano la galera. Ma la metà di loro sconta una pena senza aver ricevuto una condanna definitiva mentre nelle prigioni tedesche solo il 16 per cento è recluso senza essere stato condannato con certezza. E poi in quelle prigioni ci sono 92 detenuti ogni cento posti, mentre nelle nostre ce ne sono 144. C’è un tecnico del governo che considera anche questo spread? In Europa è il dato peggiore dopo quello della Serbia…».
Come uscirne? Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, ci dicono i giustizialisti della destra e della sinistra, ci sono stati trenta e passa provvedimenti di amnistia; ogni volta, dicono, le carceri italiane appena svuotate, si sono subito riempite. Segno che l’amnistia non serve. Dicono che occorre fare altro. Solo che questo “altro” non solo non dicono che cosa dovrebbe essere, ma neppure lo fanno.
Ancora Celestini: «Il sistema carcerario ha bisogno di una riforma profonda. Ma soprattutto deve cambiare la nostra idea di Giustizia. In Francia, Germania e Spagna sono oltre centomila i condannati che godono di misure alternative alla detenzione. In Gran Bretagna superano i duecentomila…». E in Italia, quanti sono? Appena tredicimila. Cosicché con amarissima ironia, si può ben dire che in Italia la Giustizia è fondata sulla galera. Forse, conclude Celestini, «è arrivato il momento di pensare che la detenzione non è l’unica pena da far scontare a un condannato».
Nel frattempo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere ci avverte che un detenuto di 36 anni, recluso nel carcere di Foggia si è impiccato e siamo arrivati, dall’inizio del 2012 a quota dodici: undici nelle carceri, uno in questura. Si chiamava Ottavio M., l’ultimo suicida, era detenuto dal 2010 per una condanna a 16 anni per un omicidio. Per impiccarsi ha utilizzato il cordoncino della sua tuta. In dodici anni nelle carceri italiane sono morte 1.960 persone, 704 delle quali per suicidio.
A questi morti va aggiunta la preoccupante escalation dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria: dal 2000 a oggi, secondo il segretario del SAPPE Donato Capece, «si sono uccisi circa cento poliziotti penitenziari, un direttore di istituto e un dirigente regionale»; gli ultimi due episodi un paio di giorni fa, a Formia e a Sessa Aurunca. I sindacati della polizia penitenziaria sostengono che «le infamanti ed indecorose condizioni di lavoro aggravate, spesso, da un senso di abbandono e frustrazione alimentano la spirale depressiva e la sindrome del burnout. Forse è giunto il momento che l'Amministrazione Penitenziaria comprenda che bisogna dimostrare vicinanza ed attenzione ai problemi del personale. Ancor più in questo che, indubitabilmente, il periodo peggiore che attraversa il sistema carcere dal dopoguerra».
Dice amaro Capece: «L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi degli scorsi anni - nell’ordine di 10 casi in pochi mesi! -, accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Al Dap abbiamo chiesto particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto con psicologi del lavoro ai quali le colleghe ed i colleghi possono anonimamente ricorrere. Nulla è stato fatto, e i suicidi sono purtroppo costanti».
Valter Vecellio
(da Notizie Radicali, 24 febbraio 2012)