Nel febbraio del 1788, durante il suo secondo soggiorno nella capitale italiana, Goethe ebbe modo di assistere al Carnevale di Roma, cui dedicò diverse pagine del suo Viaggio in Italia. Teatro della festa da lui descritta è Via del Corso, che per l’occasione viene addobbata fino a trasformarsi in una sorta di salotto o di galleria: alle finestre e ai balconi sono appesi drappi e tappeti, il marciapiede viene transennato su entrambi i lati della strada, da Palazzo Venezia a Piazza del Popolo, e i romani lo riempiono di sedie per sostare ad osservare le maschere e ad assistere alla gara di corsa dei cavalli che per otto giorni, ogni sera, conclude la festa. Goethe descrive con partecipe compiacimento il dilagare della follia collettiva che, una volta all’anno, permette a tutti di essere, nel travestimento e nei gesti, “fuori” di sé.
Gli uomini amano presentarsi come donzelle e le ragazze, se non recitano una parte maschile e non indossano, per esempio, una divisa da ufficiale, si concedono impertinenze e ammiccamenti che, in situazioni “normali”, sarebbero giudicate sconvenienti. Ovunque sembrano trionfare la sfacciataggine e l’irriverenza. Qualcuno si ritiene per una volta un avvocato e passa per il Corso con un codice in mano, accusando gli astanti di colpe e delitti mai commessi. Molti sono i pulcinella, e dove per penuria di mezzi ci si deve accontentare di maschere meno tradizionali, ci si avvolge semplicemente in un telo bianco e si gioca a fare i fantasmi; oppure si cambia mestiere, indossando i pani del pescatore, del fornaio, o anche del pittore tedesco, allora un ospite frequente nella capitale, riconoscibile dall’ampia tesa del cappello e intento ovunque a immortalare su un foglio le meraviglie della città. Non c’è classe sociale che non partecipi a questa bagarre, sorvegliata da un corpo di guardia che controlla che il divertimento non trascenda in alterco o in scontro. La calca ingombra il corso per tutte le otto giornate che, ogni sera, si concludono, come già detto, con la corsa dei cavalli berberi.
Il resoconto di Goethe, suddiviso in paragrafi più o meno brevi, dove si parla anche di balli, di spettacoli teatrali, dell’uso di illuminare la notte con lanterne e “moccoli”, traccia del Carnevale un quadro d’insieme ambivalente, dominato da un’allegria in qualche misura sempre un po’ minacciosa e si chiude con un capitoletto dal titolo Mercoledì delle ceneri. La festa per eccellenza della disinibizione e della schiettezza, ormai conclusasi e dissoltasi “come un sogno, come una fiaba”, induce Goethe a paragonare l’affollata Via del Corso nei giorni di Carnevale ai “percorsi della vita terrena, di cui ogni spettatore o partecipante, a viso scoperto o mascherato, da un balcone o da un parapetto, riesce a vedere davanti e accanto a sé soltanto uno spazio minimo, dove, in carrozza o a piedi, egli procede soltanto passo passo, più spinto da altri che di sua iniziativa, dove, trattenuto più che fermo per propria volontà, cerca sollecito soltanto di guadagnare un posto che gli pare migliore e più allegro, per poi ritrovarsi anche lì stretto e accerchiato e venire anche da lì scacciato”.
La conclusione a cui questa considerazione porta Goethe è che “i piaceri più vivi e più alti, come i cavalli che ci sfilano dinnanzi in corsa, ci appaiono solo per un istante, ci commuovono e non lasciano poi quasi traccia nell’anima; che libertà e uguaglianza si possono godere solo nello stordimento della follia e che la più grande voluttà ci attrae al massimo, quando si spinge vicinissima al pericolo e nella sua vicinanza ci fa provare sensazioni dolci-angosciose”.
Goethe non scrive tutto questo per intristire i suoi lettori, ma augurandosi anzi che essi, dato che la vita, come il Carnevale di Roma, non è “afferrabile o godibile” nel suo complesso ma soltanto per attimi e dettagli, anche una volta finite le allegre mascherate, non dimentichino l’importanza dei momenti che essa offre di gioia, per quanto fugace ed effimera questa possa loro a posteriori apparire.