“Semel in anno licet insanire”, dice un proverbio latino; letto oggi, in un mondo travolto dalla smania di stordimento e di trasgressione ovunque e ad ogni costo, il motto suona come un invito alla moderazione, poiché riduce il tempo della baldoria a qualcosa di assolutamente eccezionale, praticabile soltanto una volta l’anno. Nei secoli il momento dell’anno in cui dar sfogo collettivo al proprio irrazionale, liberandosi da costrizioni e convenzioni quotidiane, venne identificato con il Carnevale, una festa popolare in cui i ceti, i sessi, i ruoli si confondevano e ribaltavano in un allegro bailamme, protetto dai travestimenti e dalle maschere. Dal Medioevo in poi la Chiesa volle far coincidere la fine del Carnevale con l’inizio della Quaresima, la quale, essendo calcolata sulla festa di Pasqua, inizia ogni anno a una data diversa. Il momento del digiuno e dell’astinenza doveva servire da antidoto alle smodatezze del Carnevale e aiutare gli spiriti a prepararsi alla resurrezione di Cristo.
Poi arrivò la Riforma luterana, che prese le distanze dal cattolicesimo anche in materia di Carnevale. Secondo Martin Lutero, infatti, il digiuno collettivo precedente la Pasqua era un gesto sacrilego, in quanto rappresentava un arrogante tentativo dell’uomo di salvarsi con le proprie forze, senza contare sull’aiuto di Dio. Ancor meno aveva allora senso la folle sfrenatezza che lo precedeva, visto che, sempre secondo Lutero, l’uomo non era in grado di abbandonarsi solo momentaneamente ai piaceri della carne, ma, una volta ceduto ad essi, non era più in grado di redimersi. L’uomo non doveva dunque né darsi incondizionatamente alla bisboccia, né castigarsi e flagellarsi come un martire, ma invece essere sempre pronto a fare penitenza per le proprie manchevolezze. Per di più la festa di Carnevale sembrava avere in sé retaggi pagani - ricordava per esempio i baccanali o i saturnali romani - ed era quindi, agli occhi dei protestanti, un altro segno della lassezza di costumi del papato che la tollerava. L’inflessibilità luterana ebbe naturalmente conseguenze, tanto che la cittadella per eccellenza del Carnevale in Germania (benché da qualche tempo anche in questo paese siano organizzate ovunque sfilate e mascherate), resta la città renana di Colonia, a maggioranza cattolica.
Questo spiega come mai Theodor Storm, provi una benevola invidia nei confronti di chi celebra la festa di carnevale e senta nostalgia di un po’ di variopinta confusione anche nella sua brumosa Frisia; anche lì forse non nuocerebbe un momento di insania collettiva, da usare non certo come strumento di destabilizzazione, ma al contrario come valvola di sfogo utile per ridare senso alle regole dopo una fase circoscritta di libero furoreggiare del caos.
O se pur da noi in febbraio ci fosse
Come è d’uso in altre località,
La pazzia della collettività!
Poiché chi, lungo l’anno intero,
Non è pazzo una volta per davvero,
Come può poi in altr’occasione
Essere in tutto del suo senno padrone.1
1 O wär im Februar doch auch, / Wie’s andrer Orten ist der Brauch, / Bei uns die Narrheit zünftig! / Denn wer, so lang das Jahr sich mißt, / Nicht einmal herzlich närrisch ist, / Wie wäre der zu andrer Frist / Wohl jemals ganz vernünftig.