È il momento, adesso, di cercare nelle prossime righe di farvi capire perché questo libro mi ha affascinato. E partiamo dall’inizio. Non è un modo di dire. Vediamo proprio la prima pagina e le prime righe. Finalmente: per un libro di storia un incipit come si deve. Una partenza alla Schuhmacher dei tempi d’oro. Il ritmo è quello giusto. Ascoltiamolo: «Il castello di Domofole sorge sulla montagna che sovrasta Traona: la mole della sua torre fa spicco tra il verde della boscaglia, vicino al Vallone. L’antico edificio fa parte del nostro paesaggio: per molti è una abitudine, quando si transita sulla strada statale nei pressi di Cosio, ricercarne sulla montagna la presenza ed associarne la vista a quella del campanile di San Giovanni di Bioggio, che sorge non distante, dall’altra parte del Vallone. Ma se ci spingiamo al di là del suo “essere presente”, cogliamo che dietro al castello di Domofole c’è una storia, una storia lunga almeno mille anni. Il desiderio di conoscere e di capire si accende». [p. 19].
Un inizio da thriller, verrebbe quasi da dire. In ogni caso, un ottimo inizio. L’esposizione si dipana poi seguendo una struttura che più classica non potrebbe essere. “Omne trinum est perfectum” (tutto ciò che è composto da tre parti è perfetto) diceva una massima medievale, tanto per restare nel periodo studiato. E appunto tre sono i capitoli che formano l’impalcatura del libro. Ma vediamoli più da vicino. Il primo capitolo descrive ed esamina a fondo, in 61 pagine, il castello di Domofole nel Medioevo. 40 pagine sono poi dedicate ai protagonisti: i Vicedomini di Como, signori del castello. Il terzo capitolo, quello più ampio (77 pagine) affronta, con dovizia di documenti, lo scenario geografico: la bassa Valtellina, nei secoli IX-XI. Ma l’avventura della scoperta è arricchita costantemente da una serie di rimandi, che ci costringono a ritornare su sentieri già percorsi, per soffermarci con nuova attenzione su panorami che credevamo di aver già osservato adeguatamente. È in questo momento che, di solito, avvengono le scoperte più eccitanti.
La nostra studiosa ci strappa dalla contemplazione per mostrarci, poi, l’intero cantiere, anzi per restare nel tema dell’Omne trinum… i tre cantieri che ha voluto inaugurare per dare il via ai lavori dedicati alla scoperta del castello di Domofole. Il cantiere che ci appare subito evidente, anche se ai nostri occhi si tratta in fin dei conti soltanto di un rudere, è quello dello scavo archeologico. Questo saremmo riusciti a vederlo anche da soli. Ma per il secondo – quello dove si lavora con lena a cercare, trascrivere e interpretare carte d’archivio – la nostra guida diventa indispensabile. Dell’ultimo cantiere Rita Pezzola ci parla con speranza ed entusiasmo. È quello impiantato all’interno del mondo della scuola. Senza questo anche gli altri due non potrebbero durare a lungo. Perché è dalla scuola che deve partire la scoperta delle proprie radici. Resta questo il cantiere basilare. Non per nulla il libro di cui parliamo rappresenta uno strumento di studio e di scoperta essenziale per gli insegnanti e per gli studenti universitari.
Dopo una prima visita in questi luoghi dove ferve il lavoro di scavo, di ricerca e di apprendimento vorrei descrivere alcuni punti che hanno colpito il mio interesse e la mia attenzione. Tante volte avevo sentito parlare del castello di Domofole come del “castello della regina”. A dire il vero, erano ben tre le regine che si contendevano il posto nella tradizione. La prima è Teodolinda (VI secolo), poi viene Gundeberga (VII secolo), entrambe longobarde. Infine viene fatta entrare in scena anche Adelaide (X secolo), giovane vedova di Lotario, re d’Italia. Allora, quale sarà la regina legata storicamente al castello di Domofole? Il nostro Rinaldo Rapella (1901-1980) – che ho avuto la grande fortuna di conoscere –, nelle sue conversazioni tra storia e leggenda, scritte con stile brioso e accattivante su Le Vie del Bene, se la cava alla grande e, giustamente perplesso, decide alla fine di lasciare la scelta al lettore. Rita Pezzola invece, da storica provetta, non ci lascia nel dubbio. Dopo averci segnalato che fin dal Seicento la tradizione leggendaria colloca volta a volta nel castello di Domofole una regina, scegliendola fra le tre, e che Teodolinda è la più citata, la nostra giovane studiosa (p. 46-47) non ci lascia dubbi e chiude la partita. Le sue ricerche, attivate soprattutto nel secondo cantiere (quello archivistico), le permettono di emettere un preciso verdetto, che oso tradurre in un linguaggio diretto: dal punto di vista storico sono tutte baggianate. Mai stata una di queste regine, e tanto meno altri personaggi di gran nome, a Domofole. Ma leggiamo la sentenza dalla sua viva penna: «Queste leggende, che nascono dalle suggestioni evocate dagli antichi ruderi o da errate interpretazioni di passi di cronache, non hanno alcun fondamento documentario».
Abbandonate le tre regine, passiamo a un altro punto che ci incuriosisce. Domofole. Quale sarà l’origine di questo nome misterioso? Anche questa volta fa capolino il nostro Orsini che ci dà una risposta, buttandosi spensierato, e anche questa volta senza paracadute. (Come? Un paracadute? …No, non sto giocando con le parole; un piccolo paracadute avrebbe potuto essere una frase del tipo “Si dice…; Forse…; La tradizione afferma…”). Invece, ecco il suo giudizio. Dietro questo nome – Domofole – si intravede «qualcuno che doveva domare le folle dei sudditi riottosi». Per carità di patria non commento questa ipotesi apparentemente suggestiva. Anche se il primo moto dell’animo mi costringe ancora una volta a sottoporvi d’acchito un piccolo elenco di toponimi che dovrebbero farci riflettere almeno un istante prima di buttarci a discettare di etimologie (Bellano, Lecco, Orino, Colico…). Ma allora, dove possiamo trovare le radici di Domofole? Rita Pezzola, dopo aver scavato pazientemente con la sua zappetta, dà un occhiata al terreno e alle radici che ha liberato dalla terra, allarga le braccia e sussurra: «Il problema interpretativo… rimane aperto e disancorato da fonti documentarie che ne consentano una risoluzione certa». In parole povere: non siamo in grado di offrire una risposta. Signori, questa è la storia! Il sano dubbio dovrebbe farci evitare per lo meno gli strafalcioni più marchiani. Chi ama la storia deve soprattutto voler tenere ben distinta questa dal folclore e dalla leggenda. Nessun equivoco. Ogni campo ha la sua dignità. Guai però a quando si confonde l’acqua con il vino e la leggenda con la storia. Non è certo un sintomo di conoscenza della storia se in questo 2006 molti considerano Il codice da Vinci uno stupendo libro di storia, rivelatore (finalmente!) di trame segrete, occultate da poteri onnipotenti e intoccabili. Invece di considerarlo per quello che è: un thriller così così. Ma vogliamo provare, come thriller, a metterlo a paragone con Delitto di mezza estate di Henning Mankel?
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Sono trascorsi sedici anni, da quando, un bel giorno, mi sono imbattuto in una decina di pagine, all’apparenza niente più di un brevissimo saggio, che si confondeva agevolmente con gli altri contributi che ogni anno vengono pubblicati su quello che resta uno strumento fondamentale per la conoscenza della storia in provincia di Sondrio: il Bollettino della Società storica valtellinese. Per l’esattezza era il numero 43 del 1990. Queste dieci paginette, redatte con passione da Saverio Xeres, hanno corso il rischio di passare quasi inosservate. Visto che si trovano sotto un titolo che sembrerebbe parlare di tutt’altro o per lo meno d’altro (Riflessioni storiche sugli archivi ecclesiastici di Grosio, Grosotto e Mazzo) avrebbero potuto incuriosire al massimo gli addetti ai lavori. Invece, a mio parere, questo breve saggio ha rappresentato un vero e proprio Manifesto per la storiografia locale. Lo Xeres, oggi il più autorevole tra gli storici valtellinesi, non si limita ad affermare che «L’abilità dello storico … consiste … nel porre domande significative ai documenti. …». È lo stesso concetto espresso dal Mazzali nel 1968. No, egli si spinge ben oltre. «Si tratta, insomma, di fare la storia possibile, l’unica, cioè, non infedele al proprio nome. E questo significa fare tesoro della documentazione che abbiamo, la quale non è, qualitativamente parlando, né di meno né di più di quella su cui si costruisce la cosiddetta “grande storia”. È semplicemente diversa. … Tante volte, invece, troppe volte, la storia locale tende a riprodurre in piccolo – vorrei dire, a “scimmiottare” – la storiografia dei grandi personaggi e dei grandi eventi, cercando anche tra noi il “personaggio” – se proprio non “grande”, certo, come si dice in questi casi, non ultimo sulla scena della storia; o l’edificio – ancora come si usa dire – non inferiore alla cattedrale o al palazzo di città; o la vicenda che in qualche modo ci riservi un posticino, anche solo di comparsa, sulla ribalta della storia. La storia locale va concepita, invece, come la ricostruzione di ciò che alla storia generale, proprio in quanto generale, non è possibile». E per non lasciare dubbi conclude così: «Il dedicarci maggiormente al riordinamento e alla salvaguardia del materiale documentario sparso nella valle credo sia una scelta ad un tempo più giustamente ambiziosa e più sapientemente modesta delle fatiche storiografiche nelle quali solitamente ci impegniamo».
Ebbene, già nel 1990 Saverio Xeres affermava inequivocabilmente la necessità, anzi, la priorità dell’indagine documentaria nella ricostruzione storiografica. «I libri di storia passano e – salvo eccezioni – assai velocemente; i documenti rimangono, anzi sono essi a rimettere sempre di nuovo in discussione le ricostruzioni storiche spesso affrettate». Il lavoro di Rita Pezzola è un figlio maturo di questo Manifesto del 1990. Non ci porta alla corte di Carlo Magno o del Barbarossa, cercando di farli soggiornare, riposare o svernare in qualche modo a Domofole. Il fascino della ricerca storica la costringe, invece, ad aprire spiragli su temi che la storia locale offre e che possono essere argomento di grande interesse per tutti. Ad esempio, la storia dei cognomi (che Rita preferisce definire come «voci cognominali»). E poi, la scoperta, tanto affascinante quanto inaspettata, del significato del nome del comune di Cosio. Scoperta basata sull’interpretazione di documenti scritti, non su sogni o fantasie. Voglio lasciarvi un minimo di curiosità. D’accordo qui c’è un pizzico di sadismo. Vi offro però una bussola sicura. Per scoprire il significato del toponimo Cosio basta correre a pagina 144. Ma siamo ormai alla fine.
Un volume come questo sarebbe zoppo se fosse privo di un indice analitico, un elenco in ordine alfabetico dei nomi di luogo e dei nomi di persona. È questo lo strumento che permette al lettore e, ancor di più allo studioso, di reperire velocemente i dati che gli servono. Nelle opere di storia, in particolare quelle ricche di documenti, la mancanza dell’indice analitico è senza dubbio colpa grave. Non permettendo confronti e verifiche immediate, posso affermare che ne riducono l’utilità anche del 90%.
Motivi per invitarvi a leggere questo libro credo di averne già evidenziati in numero adeguato. Ma, alla fine, voglio ricordare la ragion predominante: il metodo. Come ho detto, è un libro “bello da leggere”, ma che, in primis, presenta un metodo di ricerca storica. Ecco perché sono convinto che si tratta di un’opera che ogni insegnante – a partire da chi lavora nelle scuole elementari – dovrebbe leggere e assimilare, soprattutto, per conoscere un frammento interessante della nostra storia. Ma in particolar modo dovrebbe tenerlo come guida sicura, da consultare prima di intraprendere o di far eseguire una ricerca di storia locale.
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Ho riletto il mio articolo e sottoscrivo ogni parola e ogni considerazione che mi sono uscite dalla penna. Qualcuno potrebbe pensare che, forse, qualche volta nei miei giudizi sono sconfinato nell’iperbole, oppure ho almeno un poco esagerato. Assolutamente no! E – mi piace usarla come pezza d’appoggio – una conferma l’ho trovata all’interno della prefazione, alla pagina 11. Saverio Xeres – che mi onora con la sua l’amicizia (e confesso che mi imbarazza un po’ lodare un amico), ma che conosco come maestro severo e autorevole negli studi storici e pungolo stimolatore di giovani energie – definisce Rita Pezzola una «ancor giovane e già matura studiosa». E questo corrisponde a un nastrino della legion d’onore da sfoggiare sul petto con orgoglio.
Per concludere, non voglio però lasciarvi con un ricordo negativo di Giustino Renato Orsini, un autore che tanto ha amato la Valtellina e la sua storia. I suoi scritti vanno letti e studiati. Per quanto concerne gli sbandamenti – di solito lo colpiscono quando si addentra nei vari e pericolosi sentieri della foresta dell’etimologia – basta semplicemente prestare un po’ di attenzione. Del resto – e questo vale anche per tutto quello che dico e scrivo – possiamo far riferimento all’affermazione di Plinio il Vecchio, lo scienziato morto nell’agosto del 79 d.C. durante l’eruzione del Vesuvio (tra l’altro, possiamo ammirarne una statua sulla stupenda facciata del duomo di Como, a sinistra di chi osserva). «Nemo mortalium omnibus horis sapit». Nessun uomo è saggio a tutte le ore.
(5 – segue)
Renzo Fallati