Un aura tiñosa* sorvola la torre di Piazza della Rivoluzione e passa quasi rasente all’antenna che corona il vertice. La sua ombra sembra una freccia enorme scagliata in basso, frammentata quando si lascia cadere dalla tribuna, intatta quando si proietta sulla spianata. Per un istante le ali dell’uccello assumono un aspetto lugubre, proprio nel luogo dove spesso un leader barbuto ha gridato slogan, pronunciato discorsi, incitato moltitudini. È curioso, perché l’immaginario popolare collega questo uccello originario di Cuba agli auspici più funebri. La gente si fa il segno della croce quando lo vede, perché ricorda la morte, i corpi inermi preda del suo becco ricurvo. Il posto che è stato scenario di tante adunanze popolari, durante le festività del primo maggio, tra bandiere rosse e sfilate in uniforme, è anche - per merito di una natura che semplifica - lo spazio di ritrovo preferito di questi animali predatori.
Dopo le ripetute marce di un milione e mezzo di persone, la Piazza ritorna al suo stato abituale ed è di nuovo vuota. A meno che non ci sia una convocazione annunciata per settimane nei media ufficiali, nessuno stazionerà su quel terreno castigato dal sole, né davanti al marmo grigio della sua altissima torre. La piazza prenderà vita solo quando verrà organizzato qualche evento ufficiale, come la cerimonia di diploma di una scuola cadetti, l’arrivo di un presidente che depone un’offerta floreale davanti alla statua dell’Apostolo o una parata militare che comincia con uno squillo di tromba. In alternativa, questo spazio dovrà abituarsi a sopportare sopra il suo asfalto il passaggio dei turisti, il clic delle macchine fotografiche che vogliono portare ad altre latitudini una foto da mostrare agli amici. Potranno dire di essere stati nel sancta sanctorum della Cuba socialista, a pochi metri dall’ufficio che una volta fu di Fidel Castro e che probabilmente adesso è vuoto. Immortaleranno nella lente di una Canon o di un Nokia l’immagine della grandezza svanita, di un sistema che non si propagherà; proprio come un giorno collezionarono un pezzo del muro di Berlino.
Se prima Piazza della Rivoluzione era soltanto un luogo sobriamente politico, adesso si è trasformata in una cartolina esibita nei chioschi del Centro Storico cittadino, in un poster a colori nelle hall degli hotel dove ogni giorno transitano decine di viaggiatori. La sua monumentale struttura è diventata una piccola riproduzione di cartapesta o di terracotta. La Piazza è adesso un oggetto che si compra in moneta convertibile, da collocare sopra una mensola in modo tale che tutti sappiano che quel giapponese, canadese o italiano sono passati dal punto rosso della Cuba rossa.
Intanto dalla strada recentemente ristrutturata, la più curata e pulita della città, proviene un calore che completa l’insopportabile abbraccio del sole. Non troviamo un solo albero a dare sollievo, a meno che non si raggiungano i giardini del Teatro Nacional o si decida di prendere un po’ d’ombra nel porticato della Biblioteca Nazionale. La Piazza della Rivoluzione è uno di quei luoghi dai quali si vuole fuggire rapidamente, dove si preferirebbe passare volando. Sia quando si aumenta il passo mentre si sventola una bandierina di carta di fronte alla tribuna che quando si attraversa la strada a grandi falcate per raggiungere la zona della Timba, quartiere marginale ubicato al termine della zona dove ha sede la più alta gerarchia nazionale.
Proprio accanto a una così grande architettura nazionalista - ispirata allo stile fascista degli anni Quaranta e Cinquanta - si estende un’area sportiva spontanea per diminuire di peso. A ritmo di addominali e di corse sull’erba, gli improvvisati atleti fanno sembrare il Consiglio di Stato molto più formale e lontano. In ogni caso le persone che fanno footing si tengono a debita distanza dalla zona di fronte alla torre perché la temono. Preferiscono le aree circostanti che circondano l’epicentro governativo, ma non si azzardano a fare esercizi ginnici nello stesso luogo dove tante volte è stato gridato: Attenti!
L’irriverenza si avvicina alla Piazza e le sue guardie vestite in impeccabile uniforme verde oliva devono proteggerla da tanta frivolezza. Osservano severamente chi attraversa a piedi, impongono multe a chi osa guidare una bicicletta nella zona centrale, fanno domande insistenti quando la telecamera di un turista è troppo professionale ed è provvista di una lente capace di vedere attraverso le piccole finestre del Ministero delle Forze Armate. I passanti hanno la sensazione di essere osservati, perché un obiettivo di questa zona sinistra della Cuba rivoluzionaria è quello di moltiplicare per mille la sensazione di vigilanza che caratterizza la vita quotidiana. Si sente un peso gravare sulla testa quando ci troviamo nell’immenso piazzale davanti a quella struttura stellare che si innalza a forma di cono. L’occhio passa al tempo stesso dalla parte superiore a quella inferiore, ma tutta la Piazza sembra progettata per far sentire l’individuo una piccola formica osservata dal microscopico di un potere onnipresente.
Cala la notte, gli autobus pieni di stranieri se ne vanno portando via il loro carico di bermuda, bottigliette d’acqua e crema solare. I militari di guardia si preparano ad affrontare una notte noiosa, mentre gli auras tiñosa ripiegano le loro ali e trovano rifugio ai bordi della torre. Il marmo si raffredda, la scultura di Ernesto Che Guevara proietta una luce dorata sul Ministero degli Interni, la nostra Lubyanka creola, mentre dalla Timba si percepiscono rumori confusi di tamburi e risate.
Il Martí seduto e triste adesso è avvolto dalla penombra, mentre i lampioni della strada illuminano gli edifici della struttura e si percepisce una solitudine commovente. Di fronte a questi silenziosi testimoni di pietra si vede la Piazza vuota nella quale nessuno vuole fermarsi, pernottare, dare un bacio alla persona amata o portare i figli a pattinare. È la Piazza spontaneamente vuota che tornerà riempirsi solo quando ci sarà una convocazione ufficiale e quando permetteranno di passare dalla sua solenne spianata.
Yoani Sánchez
(da Voces n. 13, febbraio 2012)
Traduzione di Gordiano Lupi
* Gli auras tiñosa sono giganteschi condor neri, originari e tipici di Cuba.
Foto in allegato: Presentazione del numero 13 di Voces, ieri sera nella casa di Yoani Sánchez, che dirige la rivista con Orlando Lu
ís Pardo Lazo, e la copertina della rivista clandestina. L'edizione pubblica anche un lungo articolo in spagnolo sulla vita di Guillermo Cabrera Infante di Gordiano Lupi, comprensibilmente soddisfatto, unico autore straniero in una rivista fatta da soli cubani.