Idolo Hoxhvogli
Introduzione al mondo
Notizie minime sugli spacciatori di felicità
Scepsi & Mattana, Cagliari 2012, pagg. 107, € 15
Già presente in numerose riviste italiane e straniere, con Introduzione al mondo. Notizie minime sopra gli spacciatori di felicità (Scepsi & Mattana Editori, Cagliari 2012), Idolo Hoxhvogli, classe '84, giunge alla sua opera prima. Si tratta di un libro di racconti e prose brevi, dal registro allegorico e grottesco, che tradisce una maturità compositiva inedita e, per certi versi, in controtendenza col panorama letterario italiano degli ultimi anni – panorama cui calza perfettamente quanto l'Autore dice del romanzo di successo, che è «un po' radical, un po' chic, a volte radical-chic. È attento al sociale mentre strizza l'occhio ai potenti. Usa un linguaggio politicamente scorretto, ma in maniera corretta».
Proprio la questione del linguaggio può rappresentare un'utile chiave di lettura per avvicinarsi a un libro come questo. Come è possibile dire, con verità, una realtà integralmente falsa? Come dire veramente il falso? Quale parola può dire adeguatamente, ovvero senza velleità moralistiche o retoriche, un mondo capovolto – quello, tanto per esser chiari, del godimento autistico e della speculazione finanziaria?
Prendiamo la prima parte del libro: La città dell'allegria (le altre due sono La civiltà della conversazione e Fiaba per adulti). Vi si narra la “storia” di una città «piena di altoparlanti che gridano “Allegria”», a ogni ora del giorno, a ogni istante e in ogni luogo, nelle strade, dentro e fuori i negozi, alle finestre delle case; megafoni fortemente voluti dal sindaco Bunga, convinto che grazie ad essi avrebbe finalmente offerto la felicità ai suoi concittadini. Ma a forza di moltiplicare gli altoparlanti, «è giunta l'assuefazione, tanta che l'“Allegria” lo sentono soltanto i forestieri in un fragore confuso». Dalla città vicina giunge, perciò, uno straniero, che «si avvicina come un lesto gatto a un megafono a caso» e, per il gran fragore, ne è buttato fuori. Ma non è solo il forestiero a mettersi alla volta della città dell'allegria. Ci prova anche la Legge. Arrivata al palazzo del governo, si trova davanti un maiale che le sbarra l'ingresso avvertendola che è solo «il primo tra i novecentoquarantacinque maiali a guardia del palazzo», cosicché al suo posto entrerà una signorina che vuole lavorare in televisione. C'è poi chi, come Leo, scrive inutilmente al sindaco perché faccia rimuovere il megafono che, posto dov'è, proprio fuori del suo balcone, gli ha tolto quel sonno necessario a curarsi dell'allegrite, «pericolosissimo morbo che percuote pochi sfortunati». C'è solo un modo, tuttavia, per guarire davvero da questa malattia. Si chiama Introduzione al mondo, un potente farmaco grazie al quale è possibile «non sentire più nulla» e vivere «una vita normale, senza controindicazioni», al riparo dall'«eccesso d'anima», che «conduce a una lenta e progressiva paralisi della vita, il non riuscire a far nulla».
Ora, dopo aver letto questa ricostruzione della prima parte del libro, non vi resta che dimenticarla. Perché si tratta proprio di una “ricostruzione”, di una ricomposizione di frammenti allergici alla sintesi, un'operazione esterna al testo – in altre parole: la sua neutralizzazione in una “lingua corretta”. Quella di Hoxhvogli è, infatti, una scrittura breve, ricca di immagini dialettiche, sempre al limite dell'assurdo e del grottesco, in cui si sente risuonare la lezione di autori come Kraus, Benjamin o Kafka – lezione stilistica e, soprattutto, conoscitiva. Come nel caso del Piccolo saggio sugli altoparlanti, un vero e proprio manualetto tecnico, con tanto di diagrammi e formule, per comprendere perché «la nostra città si fonda sull'altoparlante». Oppure si pensi a testi come Popoli e altri animali, Il noi, L'altro, Il guardone, al limite del saggio filosofico, dove i concetti – il “noi” e l'“altro” – diventano attori, personaggi di una messa in scena senza conciliazione né sintesi: «Il noi è morto e l'altro non l'ha scampata».
Nella seconda parte del libro questa istanza conoscitiva refrattaria alla sintesi si fa addirittura fenomenologia del tempo presente e dei suoi orrori quotidiani, grazie a una galleria di mostri e figure più o meno umane, passate attraverso una lente allucinata e deformante che, lungi dallo sfigurarle, le consegna alla loro verità. Qui, trattandosi della civiltà della conversazione, tutto prende voce, dalle persone alle cose, a intonare un monologo del disordine in cui le parole sembrano aver preso il posto delle cose e delle persone: «In piazza un uomo gioca da solo a conversazione. Recita le due parti necessarie al dialogo. Finge di salutare. “Come sta?”, chiede. Si spoglia e riveste. Gira la testa e strizza l'occhio. “Bene”, risponde».
Hoxhvogli non nutre alcuna vicinanza per le situazioni e i soggetti che rappresenta; nella sua prosa non c'è compassione né pietà, ma disprezzo e rifiuto. La civiltà della conversazione, sembra dirci l'Autore, è, alla fin fine, la civiltà del letame – spacciato per cibo, ovviamente: «Un uomo, credendo si tratti di cioccolata, si getta a fauci spalancate su di un cassone, invece pieno di letame. Mangiando, si accorge che non è cioccolata, ma così c'è scritto e pensa: “Ben venga”. Un secondo uomo vede il primo ingozzarsi, scorge il cartello Cioccolata, e si unisce al primo».
E, più avanti, proprio il letame viene individuato come il rovescio osceno dello spettacolo, quella chier spectaculaire al centro di una esilarante selezione televisiva che vede scontrarsi «un intellettuale e il prestante Ano. Il confronto sviluppato nella sede legale non stabilì alcuna supremazia. L'intellettuale prevaleva negli argomenti degni di nota, il vigoroso Ano era imbattibile in tutto il resto». Alla fine, dopo mesi di accurate ispezioni, Ano – vi lasciamo immaginare come – vince il provino e garantisce alla trasmissione il pieno d'ascolti: «Il picco di chier arrivò durante un confronto sulla capacità dei media di migliorare la società. Cercando di proferire parole ponderate, Ano fu colto da un brusco attacco di tosse petodefecante. Le telecamere vennero travolte dal letame. I telespettatori aprirono sorpresi la bocca bramosa».
È così che dove viene strappato un qualche sorriso, si tratta di un misto di amarezza e vergogna per le vicende narrate e, forse, anche per noi che leggiamo, giacché l'assurdo rappresentato è anche il nostro assurdo quotidiano. Qualche esempio: «Ha un sorriso per tutti i giorni e uno per la festa. Quello di tutti i giorni l'ha preso al discount. L'altro, il sorriso che indossa nelle occasioni speciali, in una boutique […] La sua gamma di sorrisi soddisfa l'arco di relazioni con l'altro. Quando è con se stesso e l'altro è lo specchio di fronte, non sorride» (I sorrisi del capitano Polvere Bagnata); «Ho incontrato un tale che rapina quotidianamente il prossimo. Credo fosse dipendente pubblico o banchiere. L'ho incontrato in libreria. Chiedeva un euro di sconto su un capolavoro, L'uomo senza qualità» (Conversazione 5). «All'inizio sembrò una disgrazia. Quando il giornalista aggiunse che si trattava di stranieri, mio padre, inizialmente scosso, tirò un sospiro di sollievo: “Ah”. Come a dire: “Ora capisco”. Erano stranieri. Che ci facevano degli stranieri a quell'ora? Deve aver pensato che se l'erano cercata. “Meglio così”, come mio padre, esclamarono in molti sulle tavole da pranzo. “Meglio così”: questa esclamazione, però, non uscì dalla televisione, come la notizia: “Cinque giovani morti in un impatto tra vetture”» (Conversazione I).
Ben diverso è il registro della terza parte del libro, dove il grottesco cede il posto al tragico e la fenomenologia delle situazioni fa spazio alla descrizione delle singolarità, dal topolino Chubby alla bambina Allegra. Quella narrata è una fiaba per adulti – «la storia abortita di un piccolo cadavere» – che mette la parola fine una volta per tutte alla città dell'allegria, e non perché minacciata dalla malinconia o dall'eccesso d'anima, sentimenti ancora in qualche modo neutralizzabili, ma per ragioni molto più radicali e terribili, in cui la vita e la morte finiscono per coincidere, come se l'iniziazione al mondo degli «spacciatori di felicità», opinionisti politici economisti predicatori di ogni sorta o colore, fosse – in ultimo – un solco scavato dagli adulti nel grembo di una vita innocente, la ferita insanabile di un'esistenza macchiata di sangue.
Luigi Francesco Clemente
Idolo Hoxhvogli (1984) è nato a Tirana e vive a Porto San Giorgio. Si è formato all’Università Cattolica di Milano. I suoi scritti sono presenti in numerose antologie e riviste italiane e straniere, tra cui Gradiva International Journal of Italian Poetry (State University of New York at Stony Brook) e Cuadernos de Filología Italiana (Universidad Complutense de Madrid).
Luigi Francesco Clemente è dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane presso l'Università degli Studi di Perugia. Le sue ricerche vertono soprattutto sulla fenomenologia e la psicoanalisi. Tra le sue pubblicazioni: Un idealismo senza ragione. La fenomenologia e le origini del pensiero di Emmanuel Lévinas, Ombre Corte, Verona 2008; “Giobbe, Cristo e l’impotenza divina. Alcune considerazioni sulla riflessione teologica di Slavoj Žižek”, in Davar, vol. 5, 2010, pp. 105-127; “Controversie. Sul senso della razionalità fenomenologica nel giovane Lévinas”, in Smerilliana, vol. 12, 2011, pp. 161-182. Attualmente sta lavorando, per i tipi di Orthotes, sulla traduzione dall'inglese di A. Zupančič, Etica del Reale. Kant, Lacan.