Espongo qui il frutto di una iniziativa-dibattito-spettacolo, promossa dal Circolo La Comune di Bolzano nell'aula magna del locale liceo scientifico “Evangelista Torricelli” il 25 gennaio. Era stato richiesto da me al Circolo (del quale faccio parte) che mi si consentisse di puntare quest'anno la Memoria specificamente sugli IMI (cioè le varie centinaia di migliaia di militari italiani che -dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943- furono deportati dalla Wehrmacht nei campi di concentramento in Polonia e Germania e lì rimasero per quasi due anni, resistendo alla insistente pressione perché aderissero alla Repubblica sociale italiana, detta di Salò e si arruolassero nel suo esercito, agli ordini di Hitler). Di loro circa 80.000 morirono di fame stenti percosse malattie, gli altri tornarono e cadde su di loro il silenzio. Perché? me lo domando da molti anni e vorrei insistere sempre di più, man mano che la giornata della Memoria diventa solo una virtuosa indignazione contro l' enormità della Shoà. Credo si debba distinguere la Shoà, cioè il tentativo di arrivare a quella che Hitler chiamava “soluzione finale” (Endsolution) del problema ebraico, attraverso lo sterminio del popolo ebreo di tutta Europa. Analoga decisione veniva praticata verso Rom, omosessuali, malati di mente, lesbiche, testimoni di Geova ecc.: tutte queste persone venivano destinate a morte per ciò che erano, non perché avessero fatto qualcosa di male: una tremenda imperdonabile “strage degli innocenti”, appunto una Shoà, uno sterminio, catastrofe, rovina. La radice di qualsiasi razzismo sta proprio nel considerare uno o una colpevole di essere ciò che è. E questo mi è rimasto fisso in mente da quando, per via delle leggi razziali, due sorelle, compagne di scuola mie e di mia sorella non poterono più frequentare “perché ebree”: “ma come è possibile accettare che una debba restare ignorante perché si chiama Ester o Ruth?” mi dicevo inorridita e non me lo dimenticherò mai più.
Diversa è la vicenda degli Imi (Internati militari italiani), ai quali ogni giorno durante l'appello nel piazzale del campo veniva chiesto di aderire alla Repubblica sociale e di mettersi agli ordini di Hitler, e sarebbero stati liberati e rispediti in Italia. Ogni mattina per quasi due anni, infreddoliti, spossati, pesti, affamati, senza speranza di futuro quei più di 700.000 resistettero, rifiutarono, non cedettero. Ricordarli, insieme ai perseguitati politici (cattolici comunisti socialisti ecc.) sarebbe pura giustizia e verità: ma allora perché questa tenace reticenza, e abbandono che sentirono e sentono come una cosa molto amara? A buon diritto si dovrebbe datare la Resistenza dalla loro deportazione come dalla renitenza dei giovani che per non soggiacere ai bandi di arruolamento di Graziani andarono in montagna: il legame delle decisioni dei militari con la lotta resistenziale è di tutta evidenza: ma se si rettifica il racconto della Resistenza e lo si lega anche agli Imi, non si può più dire che fu opera di una esigua minoranza di esagitati da mettere a confronto alla pari con altri esagitati (una specie di anticipazione della teoria degli “opposti estremismi”) che invece andarono nella repubblichina; e tutto il resto era “zona grigia”. Bisogna riconoscere che la Resistenza in Italia fu una vera presa di coscienza politica di massa, la fondazione della nazione libera e democratica, della cittadinanza attiva. E la cosa è tanto più stupefacente, in quanto avviene (come del resto nelle 4 giornate di Napoli) in una larghissima parte della popolazione, che probabilmente era anche stata fascista o apolitica o senza idee. Certamente se si imposta la rappresentazione della Resistenza riferendosi a tutti e tutte quelle che presero coscienza e rimasero fedeli a ciò che avevano capito, non si può più lasciar passare l'identificazione di Resistenza con quelli/e che hanno un brevetto di partigiano/a (ad esempio io), ma bisogna estenderla anche a chi resistette nei campi di concentramento (ad esempio mio padre). Tra le testimonianze ricordate il 25 gennaio a Bolzano, è molto significativa quella contenuta in un libro di memorie di Aldo Spagnolli di Rovereto (morto quasi durante la pubblicazione del libro). Spagnolli fu catturato e mandato in campo di concentramento nel 1943. Ma durante la prigionia si scoprì che era diventato cittadino del Terzo Reich, come tutti/e quelli che abitavano in provincia di Bolzano, Trento, Trieste, Udine, Pordenone, i quali per via degli “accordi” (in verità Diktat) tra Hitler e Mussolini furono “annessi” al Reich, costituendo il Voralpenland (Regione delle Prealpi ecc.) dove non ci fu la Repubblica di Salò. Era così evidente che la scelta era tra fascismo e resistenza, che Spagnolli, appena tornato a casa cercò il Cln di Rovereto e si impegnò nella Resistenza trentina. Forse la più completa ed eloquente documentazione del processo è quella contenuta in una video-registrazione inviata da Rosangela Pesenti su suo padre, del quale la presa di coscienza inizia dal campo di battaglia nella ex Jugoslavia, dove li raggiunge l'armistizio dell'8 settembre. I partigiani di Tito lasciarono loro la scelta di fermarsi con loro o di tornare in Italia, comportandosi dunque molto civilmente. Ma arrivati a Mestre furono catturati dalla Wehrmacht e incominciò la solita storia di nequizie nei loro confronti. Il Pesenti racconta con grande semplicità di tedeschi buoni e tedeschi cattivi, senza cadere mai nello stereotipo razzista del “tedesco cattivo per natura” e, giudicando l'intera vicenda, arriva a “ripudiare la guerra” quasi con le stesse parole di mio padre (“qualunque cosa abbia fatto la Germania, ha pagato abbastanza, è tutta una rovina”), togliendo qualsiasi base al revanscismo.
Altra nota che risulta da varie parti è che la generazione di mezzo è stata quella durante la quale si è come fissata la discontinuità della memoria: gli stessi IMI tornati non insistettero nel narrare, a molti era insostenibile il racconto, a molti le conseguenze sulla salute restarono: insomma, sentire un nonno ex Imi farsi intervistare dalla nipotina di anni parlando di sé per la prima volta poche settimane fa è commovente e importante, sentire una intera storia d'amore epistolare tra due che di tutto si parlano, ma non che lui era stato un Imi, fa venire alle labbra una serie di domande cui non vi è ancora risposta. Si tratta dunque di materia storica ancora non conosciuta bene e molto più complessa di quanto non si creda.
Anche per questo sarà molto importante un convegno promosso dal presidente dell'Anpi di Bolzano sen. Nello Bertoldi e che l'Anpi nazionale appoggia sulla questione dei confini e delle popolazioni “miste” in territori europei, che si terrà fra un po' di mesi e aiuterà a capire che le identità storiche in un continente come l'Europa, fatto di passaggi arrivi mescolanze divisioni, va studiato proprio come esempio e -speriamo- modello positivo della democrazia e libertà molteplici.
Lidia Menapace