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Francesco Zappia. Il nemico silenzio
23 Gennaio 2012
 

Roberto Saviano continua a parlare! Lo fa alle “Invasioni Barbariche” e parla del nostro ex Presidente del Consiglio dei Ministri che molti hanno considerato finito (politicamente), o almeno ritirato. Roberto non ci crede, analizza il profilo di Silvio Berlusconi e gli attribuisce un comportamento strategico finalizzato al suo rientro in politica; lo strumento principe di cui si attrezza Berlusconi, dunque, sarebbe il silenzio, un allontanamento dalla scena per poi ricominciare a parlare, magari sperando negli errori del governo attuale e degli altri. Insomma, un modo per aver la meglio sull'opinione pubblica senza alcuno sforzo. Il silenzio, dunque, come alleato strategico e politico, quello con cui fai bella figura. Non vedo del tutto surreale la teoria di Roberto Saviano. Eppure, penso, questo benedetto silenzio fa brutti scherzi. Può far bene, ma può far male; dipende come lo si usa.

Quello che per Silvio Berlusconi oggi rappresenterebbe il caro “amico silenzio”, da sempre non rappresenta un vero e proprio alleato per Saviano, il quale più che far silenzio per trarne un vantaggio personale lo ha sempre subito per mano (per bocca, anzi) dell'intera società, ricavandone un danno. Su questo tipo di silenzio, e sugli effetti sortiti, scrissi qualche tempo fa proprio a proposito di una mia riflessione sullo scrittore che oggi parla e continua a farlo con originalità e coraggio. Allora si era alle prese con il suo romanzo di debutto.

Allora, così scrissi:

«…per devastare la catena dei soprusi bisognerebbe non aver nulla da perdere! Bisognerebbe vedere nel sopruso stesso la minaccia di perdere qualcosa. Necessiterebbe che ognuno considerasse inviolabile il proprio diritto di vivere senza compromessi o paura di parlare, di scrivere. Bisognerebbe che ogni componente della società reputasse opportuno parlare, oltre a pensare. Perché pensare a volte non basta ma serve a mostrare l’inerzia di un gruppo pesantemente infettato dal virus dei sopraffattori, che intanto agiscono come indisturbati solisti nel coro dei silenti. Bisognerebbe capire che opporsi con la parola e con i giusti comportamenti non implica la perdita della libertà di vivere, ma il raggiungimento di questo diritto. Per spezzare questa catena bisognerebbe vivere in un mondo di uomini liberi, non soggetti all’opprimente autorità di qualcuno.

Il sopruso è tipico di chi pretende di soddisfare i propri voleri sottomettendo i bisogni degli altri. Ma questi appartiene ad un casta ridotta a pochi come lui, e godrà limitatamente a quanto la capacità di opprimere troverà misura e fertilità nel silenzio generale. Ma il tiranno non è mai libero perché è un uomo solo! Solitudine e libertà non camminano a braccetto. Saremmo davvero liberi se fossimo solitari tiranni, portatori di interessi e scopi centralizzati? Riusciremmo a sentirci soddisfatti? Credo di no! Forse ci doteremmo di qualche spazio e di qualche possedimento in più, ma credo che sentiremmo, prima o poi, la ristrettezza della solitudine. Solo, però, non è unicamente il tiranno! Carcerieri di se stessi sono coloro che hanno timore di non “cedere il la” al tiranno solista. Che si trincerano dietro il silenzio generale credendo che l’armonia della libera società consista nel vivere tra i muri di casa propria, convincendosi che quello che succede intorno sia distinto dal proprio apporto. Ed il gruppo diviene costretto ad accettare l’opprimente canto del tiranno facendo finta che l’armonia sia proprio quella.

Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, non è divenuto noto soltanto per il successo e lo scalpore del suo libro, ma soprattutto perché la sua presenza in questa nazione e nel mondo intero è testimonianza capace di far gelare il sangue. Il suo gesto, certo non frutto di protagonismo ma di vero desiderio di civile opposizione finalizzata al raggiungimento dello scopo comune, è un’occasione per tutti i cittadini del mondo. Non credo nemmeno finalizzato ad insegnare qualcosa a qualcuno, ma semplicemente teso a stimolare quelle coscienze ammalate di assuefazione al sopruso altrui. Quasi tutte, direi. Ai miei occhi, a dire il vero, non ha fatto scalpore il contenuto del suo scritto, ma l’inconsistenza della coscienza generale che credevo esistesse in qualche misura. Credevo che uno come Roberto non avesse bisogno di protezione o di nascondersi o, peggio, di dover anche solo pensare di dover scappare dalla propria terra, perché avrei dato per scontato che chi si fa portatore dell’esigenza di trasparenza, di pace, chi si propone di capire e far comprendere qual è la via per raggiungere la libertà, stimolando la propria di coscienza, prima ancora di pretendere una risposta da altri, fosse degno padrone della propria terra, non clandestino. Credevo che Roberto (e tanti altri come lui, da magistrati a comuni cittadini; da appartenenti alle Forze dell'Ordine, ad onesti imprenditori), una volta proposta una sinfonia diversa, avesse potuto godere sentendo bussare alla porta strumentisti e coristi disposti a provarci, amici desiderosi di rivendicare la propria cittadinanza. Ed invece ha continuato incessante ed incontrastato quel maledetto silenzio, quel vizio di cedere il passo alla solitudine dei sopraffattori capaci, quasi telepaticamente, di fare terra bruciata attorno alla speranza del “profumo di muschio”.

La notorietà dei silenti sopraffatti ha schiacciato quella di Roberto Saviano, da una parte, e di tutti i sopraffattori dall’altra, “mettendosi in luce, facendo ombra” tra il Bene ed il Male, qualora il Bene avesse avuto l’occasione di schiarire. Ora che il tiranno ha individuato, tra l’inerzia di tutti, chi ha tentato di proporre una melodia diversa, ha potuto imprigionare il suo grido di giustizia in una campana di vetro assordando con la forte eco, divenuta insopportabile anche per lo stesso canterino perché “scomoda”. Ma tuttavia capace di superare le barriere di un sistema in cui qualcuno che vuol sentire spero esista.

Ho impiegato un giorno intero a scrivere poche parole e non so quanti mesi a meditare se il mio stesso silenzio, fino ad ora perfettamente intonato al coro, in qualche modo avesse potuto essere parte del tiranno; e, inchiodato al muro da una risposta affermativa, ho reputato necessario scrivere, parlare, fare ogni cosa potesse andare oltre al semplice pensare, che potesse agevolare me stesso, prima di ogni altro conoscente o sconosciuto, nella fruizione di un privilegio che rispecchia il sentito dovere di dar voce e di non voltare le spalle ad uno di noi, stendendo nell’aria quelle note che, son certo, faranno sorridere per un attimo Roberto, in qualunque parte del mondo egli debba o decida di appartarsi per continuare a subire il sopruso... del nemico silenzio».

Insomma, non è cambiato molto da allora: ancora il silenzio è protagonista di una scena sociale, uno scenario che sfrutta gesti e sorrisi (o pianti) con il preciso scopo di non far del bene. Mi chiedo: quando impareremo, giusto per tornare a noi, a far silenzio al momento giusto senza che esso sia un banale strumento? Fatto questo, impariamo a parlare quando ciò fa bene a tutti noi: Roberto Saviano lo sa fare.

 

Francesco Zappia


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