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Desolazione del paesaggio e dell’anima in una poesia di Friedrich Hebbel 
di Gabriella Rovagnati
13 Gennaio 2012
 

Paesaggio d’inverno

 

Senza fine s’estende la bianca vastità,
vuota sino all’ultimo alito di vita; 
rigidi son da tempo i rivi, i polsi vivaci,
neppure il vento freddo s’agita più.

 

Il corvo laggiù, nel monte di neve e gelo,
colto da freddo e fame si scava un’ima buca,
e se non cava più cibo da quelle beccate,
si scava allor, io credo, la propria tomba.

 

Il sole, con un guizzo ancora tra le nubi,
getta un ultimo sguardo sulla landa deserta,
ma, sbadigliando seduta sul trono della vita,
lo sfida la morte in bianco abito di festa.
1

 

Questa poesia di Friedrich Hebbel descrive un paesaggio invernale ricorrendo alla classica identificazione dei pessimisti e dei malinconici, che nella neve e nel ghiaccio non scorgono una coltre benedetta che protegge i semi che germoglieranno a primavera, bensì soltanto una traduzione paesaggistica del rigor mortis. Nella vastità candida di una landa innevata Hebbel non vede altro che immobilità: non solo i ruscelli gelati hanno cessato di pulsare, ma non soffia neppure il vento. Né più positiva, benché del tutto compatibile con le abitudini di questo uccello, è l’evocazione, nella seconda quartina, del corvo, animale funereo sia per il colore del suo piumaggio sia per il suo cupo stridio, che somiglia più a un lamento che a un canto melodioso. E anche nei suoi confronti il poeta non è certo ottimista, anzi mette in dubbio la possibilità di sopravvivenza dell’uccello. Uno spiraglio di luce - e di speranza - sembra balenare nell’ultima strofa, con un rapido affacciarsi del sole, subito però affrontato dalla morte che gli contende lo scettro.

In questa poesia dalla struttura regolare - tre quartine a rima alterna (che purtroppo si perde in traduzione) - non si trova però la soluzione di questa tenzone fra il sole e la morte, non si sa chi alla fine avrà la meglio, perché questi versi, oltre a descrivere una veduta esteriore, sono anche specchio di uno stato d’animo, dell’incertezza di un uomo che teme di non riuscire ad arrivare a nuova primavera.

Certo, Hebbel, nato nel 1913 in una nordica cittadina dello Schleswig-Holstein, conosceva assai bene paesaggi come quelli presentati in questa poesia, ma era anche persona perseguitata dalla sorte. Figlio di un bracciante, cresciuto nell’indigenza e rimasto orfano di padre precocemente (nel novembre 1827, a quattordici anni), solo con grandi sacrifici Hebbel riuscì a seguire il richiamo delle muse che fin da ragazzo lo aveva indotto a comporre versi. Grazie al sostegno di alcuni mecenati poté proseguire gli studi e iscriversi all’Università di Monaco; ma proprio la penuria di denaro gli impedì di arrivare alla laurea.

L’inverno del 1893, al quale risale la stesura di questi versi, fu per Hebbel un momento di grande sconforto: pochi mesi prima aveva perso la madre (nel settembre 1838) e un carissimo amico; si sentiva portato per il teatro, ma tutte le tragedie che concepiva non andavano oltre lo stadio del frammento; interrotti gli studi, stava per rimettersi in viaggio (compiuto in gran parte a piedi) verso Amburgo, dove viveva la sua compagna, dalla quale avrebbe avuto due figli, ma che non si sarebbe mai sentito di sposare e verso la quale si sentiva perennemente in colpa, perché sapeva di non ricambiare con altrettanta abnegazione l’amore di lei.

Da questa situazione di estremo disagio concreto ed interiore nacquero dunque questi versi che esprimono tutta la delusione e l’ansia di un giovane uomo che si vede, già prima dei trent’anni, privo di vie di scampo: senza un lavoro, senza una casa, senza una professione che gli permetta di sbarcare il lunario. E anche se tenta di non lasciar morire dentro di sé un ultimo barlume di speranza, a prevalere sembra essere in lui l’amarezza.

Un grande pessimista Hebbel rimase tuttavia anche quando, finalmente, trovò sia la tranquillità sentimentale sia quella economica; trasferitosi a Vienna, infatti, con le sue tragedie (fra cui Maria Magdalena, Judith, Agnes Bernauer) egli divenne dopo il 1848 autore acclamato nella metropoli danubiana anche grazie a sua moglie, Christine Engahus, attrice del Burgtheater e spesso protagonista delle opere del marito.

Nella seconda fase della vita lo scrittore, noto come drammaturgo, ma anche molto apprezzato per la sua poesia dal tocco tardo romantico, conobbe dunque sia la felicità coniugale sia il successo, ma rimase profondamente convinto che l’uomo fosse incapace di tenere il passo con il rapido progresso del mondo e di reggere il confronto fra il proprio io e la realtà esterna. I suoi drammi presentano sempre lo scontro fra idee opposte, la lotta fra i sessi, il divario fra il singolo e la collettività, insomma un’insuperabile contraddittorietà che rende inutile ogni sforzo umano. Segnato dagli stenti patiti in gioventù che ne compromisero la salute, Hebbel morì nel 1863, nel pieno dell’attività creativa, a soli cinquant’anni.

 

 

1 Winterlandschaft // Unendlich dehnt sie sich, die weiße Fläche, / bis auf den letzten Hauch von Leben leer; / die muntern Pulse stocken längst, die Bäche, / es regt sich selbst der kalte Wind nicht mehr. // Der Rabe dort, im Berg von Schnee und Eise, / erstarrt und hungrig, gräbt sich tief hinab, / und gräbt er nicht heraus den Bißen Speise, / so gräbt er, glaub’ ich, sich hinein ins Grab. // Die Sonne, einmal noch durch Wolken blitzend, / wirft einen letzten Blick auf’s öde Land, / doch, gähnend auf dem Thron des Lebens sitzend, / trotzt ihr der Tod im weißen Festgewand.


 
 
 
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