Era un gatto di rara bellezza. Di quelli che si vedono solo nei film. Impeccabile... Portamento principesco, coda dritta a punto interrogativo. Manto vaporoso rosso-arancio, pelo lungo. Quando passava davanti a casa mia (al vecchio nucleo) non potevo fare a meno di ammirarlo. “Micio, come sei bello. Lasciati accarezzare”. Ma Nuvola (così mi veniva di chiamarlo) non mi degnava sguardo.
“An vedi che damerino?”, parevano dire i viandanti (felini, ben s’intende) che sostavano a mangiare il cibo nelle ciotole davanti all’ingresso... Nuvola tirava dritto con l’atteggiamento di chi pensa: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
I suoi passaggi erano sporadici, per cui non feci caso alla prolungata assenza.
Quando lo rividi, stentai a riconoscerlo. Non aveva più l’aria altezzosa e socializzava con i gatti di passaggio. Il pelo era diventato corto come fosse stato rasato di recente.
“Nuvola, cos’hai combinato? Perché hanno accorciato il tuo bel manto? Ti sei rotolato nel catrame o sei andato in mezzo alle spine?”
“Non ti preoccupare. Crescerà presto e sarà ancora più bello”.
Ma il pelo diventava ogni giorno più corto e opaco. Il suo aspetto peggiorava a vista d’occhio. In poco tempo subì una impressionante metamorfosi. La bocca e il naso deformi, le zampe tozze, la coda afflosciata... Non potevo più chiamarlo Nuvola. Sarebbe stato prendersi gioco di lui. Era diventato semplicemente “Il gatto malato”.
Una sera lo vidi cadere a terra. Mi precipitai per raccoglierlo ma appena mi avvicinai si alzò di scatto, camminando in orizzontale... Se camminava normalmente perdeva l’equilibrio.
Accettò per la prima volta il cibo. Da quel momento le frequentazioni divennero quotidiane. Lo vedevo ogni sera comparire in fondo alla strada alle diciannove in punto. Mangiava con voracità e se ne andava camminando sempre in orizzontale.
Era una sera di pioggia. Stavo partendo in auto quando lo vidi arrivare. Tornai indietro ed entrai in casa per prendere la solita scatoletta. Il gatto entrò nella bussola d’ingresso. Sembrava volesse dirmi qualche cosa. Per la prima volta si lasciò accarezzare, prodigandosi lui stesso in effusioni. “Ron, ron, ron”. Lo feci uscire...
“Mi dispiace. Devo andare via. Ci vediamo domani sera alle sette”.
Se ne andò a malincuore. I suoi occhi estremamente tristi avevano una strana espressione di rassegnazione...
La mattina dopo guardando dalla finestra vidi il mio gatto Spinus che camminava lentamente in punta di zampe. Volli capirne il motivo. Rimasi allibita. Nel cortile c’era il corpo senza vita del “Gatto malato”.
Improvvisamente compresi quello che cercava di dirmi la sera prima: “Sono venuto a salutarti e a ringraziarti per essermi stata vicina in questi ultimi drammatici giorni. Sono arrivato al capolinea. Non abbandonarmi in queste poche ore che mi rimangono da vivere”.
Provai grande rammarico per averlo lasciato morire in solitudine. Mi chinai a raccogliere quel povero corpo deforme intriso di pioggia. Lo strinsi al petto e piansi a lungo. Ancora una volta un animale mi aveva dato una grande lezione di umanità.
Vanna Mottarelli