Da una rosa può venir fuori un drago.
R. M.
Durante la presentazione presso la Sala Agnelli della Biblioteca Comunale Ariostea della sua ultima raccolta in versi, Le piume del tempo (Este Edition, 2011), la scrittrice Rita Montanari ha rievocato ai presenti in che modo il tragitto compiuto per anni tutte le mattine mentre si recava al Liceo scientifico di Codigoro, abbia influenzato il suo lirismo. Alla guida dell’auto che attraversava la strada fiancheggiata dai platani, in mezzo alla nebbiosa campagna, vacua e colma al tempo stesso di ricordi e aspettative. Proiezioni velate in cui abbandonarsi, o ricaricarsi prima di affrontare la routine quotidiana. Uno spazio atemporale per sé, per il proprio io interiore. La nebbia e il non-tempo di Ferrara che hanno scosso le vene e la penna di altri autori di queste terre, dal celebre Roberto Pazzi, al più giovane e acuto Matteo Pazzi, entrambi visionari, ma ben aggrappati al rosso dei cotti delle mura cittadine. Un tono umanista che la Montanari ha trattato anche nelle prose giovanili.
– Che cos’è la nebbia che tanto insegue e ritorna nella poetica degli artisti di pianura e come l’accoglie Ferrara?
La nebbia è il velo che cala e si distende tra noi e la realtà; è la metafora della condanna - tutta e soltanto umana - a restare sempre al di qua, pur avvertendo un fortissimo richiamo all’oltre: nell’assurda illusione di intuire/ una verità scordata per sbaglio/ dal cielo o di bere una goccia/ di eternità. (pag. 14) La ferraresità degli artisti di pianura è intrisa e impastata di nebbia; come scrive don Franco Patruno nella postfazione a Dal niente che resta basta pensare ad Antonioni. Per me la nebbia è insieme ostacolo a vedere, ma soprattutto libertà di sognare la realtà, di sfondare le barriere nelle stanze dell’anima.
– Gli orizzonti incerti della campagna intorno alla città sono diventati i suoi angoli poetici; in che modo la nebbia l’ha aiutata a liberare le sue immagini interiori e a riempirli?
Forse la consuetudine quotidiana con la nebbia, nei ventidue anni di pendolariato per l’insegnamento, mi ha affinato l’esercizio della pazienza e dell’umiltà: la prima è condizione necessaria a governare l’auto nella totale mancanza di visibilità; la seconda nasce dal senso della attesa che i percorsi di pianura disegnano nel cuore: come una musica ovattata che può all’improvviso elevare i toni, o un sipario che si squarcia radioso all’improvviso appena dopo il banco di nebbia.
– Nel corso della presentazione ha ricordato l’incidente in auto proprio in quel tratto di strada: quell’accadimento ha poi influito sul suo fare poesia? Ne porta con sé ancora delle tracce, dei lividi indelebili?
Durante la convalescenza forzata a seguito dell’incidente lessi moltissimo, soprattutto poesia: Montale, Ungaretti, Saba e tutto il Novecento che mi intriga da sempre l’anima.
Forse l’avere avuto salva la vita, nonostante la breve perdita di conoscenza, mi ha donato di nuovo il beneficio della vita stessa e della parola: in particolare, della parola poetica.
Certo ne riporto la memoria, oltre ad una profonda gratitudine verso chi mi ha trovato in un canale di scolo delle risaie e mi ha restituito all’hic et nunc. I lividi sono stati assorbiti, in senso reale e metaforico.
– «La via del coma / è di notte e di nebbia». L’incidente le avrà causato una perdita di coscienza, un blackout: è riaffiorato qualcosa in Lei di quegli istanti sospesi, anche inconsciamente, magari in sogno?
Negli anni a seguire ho inevitabilmente rivisitato nella memoria quei momenti della primavera ’87; quanto quella vicenda abbia influito sulla mia produzione di questi venticinque anni non mi è dato sapere. Certo – come del resto accade per tutte le esperienze – anche quella ha inciso sulla mia coscienza. No, non ho mai sognato l’incidente.
– Dalla raccolta Dal niente che resta (Book Editore, 1995) si desume che il velo spugnoso, a volte diafano, che scende soprattutto in autunno, o si fa foschia mattutina in estate, per lei sia sempre stato un tramite con Dio, un mezzo più immediato di contatto, di preghiera…
Più che un tramite, è una sorta di gioco a nascondino o a mosca cieca: io non Lo vedo, ma Lo sento. Avverto tutta la Sua forza misteriosa che governa la mia vita: ed è proprio il mistero a dettare le mie povere parole. Del resto l’etimologia greca della parola rimanda a ciò di cui non si può parlare, davanti a cui si può solo restare muti: perciò il mio balbettio risulta quasi arrogante.
Ma la mia parola balbettata si offre come preghiera consapevole della propria inadeguatezza ad intuire l’ombra ora remote ora vicina della Sua presenza.
– Il bianco del foglio, del cielo, delle piume degli angeli, del Natale. Il bianco nei suoi versi è il colore dell’attesa, è un Assoluto a cui non smette spiritualmente di tendere. Il filo rosso tra la raccolta prima citata del ’95 e l’ultima da poco pubblicata è, a mio avviso, il vigore di una rosa che accesa a volte lo macchia, gli dà un senso: che cosa sta cercando? Cosa attende la sua ricerca?
Che cosa cerco? È una domanda complessa. La ricerca è un cammino e non sai dove ti conduce. Ma lo devi seguire. Forse saprò rispondere meglio all’uscita del prossimo libro, se mi sarà dato. Per ora continuo ad annusare il profumo del mistero, che mi accompagna lungo la strada.
Matteo Bianchi