G.B. è un ragazzo di 35 anni, vive a Pisa, i problemi che lo affliggono sono gli stessi che affliggono troppi ormai: anni di precariato alle spalle, poi un lavoro part-time a tempo determinato e una causa per mobbing in corso.
Su di lui grava una vecchia diagnosi psichiatrica risalente al 2006 anno in cui per la prima volta veniva ricoverato con la forza in seguito a degli attacchi di ansia seguiti alla morte del padre ed alla conseguente fine dell'attività lavorativa paterna nella quale lavorava.
Da allora inizia il suo calvario, invece di aiutarlo le istituzioni preposte gli rendono la vita ancora più difficile. I pregiudizi che diagnosi di questo tipo si portano appresso rendono ancora più difficile, quasi impossibile, trovare lavoro, ma G. essendo in grande difficoltà accetta di farsi inserire nelle categorie protette del lavoro. Questo fatto gli permette però di lavorare solo part-time e non arriva lo stesso a fine mese, dovendo pagare minimo 300 euro di affitto. A questo punto G. fa richiesta di alloggio popolare e si rivolge ai sevizi di assistenza sociale per avere un sostegno. La soluzione che gli viene fornita è il ricovero in una struttura residenziale psichiatrica e la nomina di un amministratore di sostegno. Una soluzione questa che avrebbe comportato lo sradicamento dalla sua vita sociale, l’imposizione di ritmi di vita controllati dalla struttura e l’amministrazione da parte di una terza persona del suo denaro, in poche parole la perdita di ogni autonomia e dignità. Per non vedersi costretto ad accettare la proposta indecente dei servizi sociale G. decide di occupare un appartamento abbandonato dove nel frattempo stabilirsi in attesa di un alloggio popolare; questo avveniva circa tre-quattro mesi fa.
Come se non bastasse a tutti questi problemi se ne somma un altro ancora: la necessità di un’operazione chirurgica, che non può essere ulteriormente rimandata e che richiede mesi e mesi di convalescenza, una convalescenza che di certo non può essere affrontata in mezzo alla strada.
Scoraggiato, vedendosi negare il diritto alla casa, il diritto al lavoro e il diritto alla salute si è rivolto nuovamente alla psichiatria: si è ingenuamente recato al CIM, il centro territoriale di igiene mentale, per chiedere allo psichiatra che lo segue da anni che gli venisse riconosciuta la sua sanità mentale; con la speranza di potersi liberare una volta per tutte dallo stigma psichiatrico e di poter far andare la propria vita in una nuova direzione. G. non sapeva che in psichiatria la guarigione non è contemplata.
Dopo il colloquio, una volta rientrato a casa, si è ritrovato circondato da un folto drappello di persone che gli intimavano di dover andare con loro in psichiatria. Al nostro arrivo abbiamo trovato quattro poliziotti municipali, otto vigili del fuoco, due operatori della croce rossa, due funzionari dell'ASL e lo psichiatra che ha ordinato il TSO. Questi ultimi, rimasti tutto il tempo in disparte, inizialmente non avevano ancora l'ordinanza che permetteva loro di privare della libertà a G. e quindi c'è stato il tempo di fare una mediazione e di spiegare ai poliziotti ed ai vigili cosa era successo prima di quel momento dato che non conoscevano G. e non sapevano assolutamente niente di lui. Una volta arrivata l'ordinanza, quando i vigili stavano per sfondare la porta, abbiamo convinto Gianluca a scendere e mostrare ai presenti che era tranquillo e che la sua agitazione era dovuta non ad un delirio ma al fatto che era andato gentilmente a chiedere diritti e gli è stato imposto un TSO. Il suo errore è stato quello di aver riferito allo psichiatra di sentirsi bene e di non prendere più i farmaci da almeno due anni. La mediazione che ha convinto G. a uscire di casa consisteva nell'impegno di poliziotti e vigili a non mettergli per nessun motivo le mani addosso, cosa che G. temeva, e che sarebbe andato autonomamente con la macchina di un amico all'ospedale S. Chiara di Pisa.
Tutto questo per scongiurare il TSO, convinto di poter ancora spiegare la sua situazione e non essere medicalizzato; ma così non è stato.
Il trattamento sanitario obbligatorio che costringe la persona a rimanere in ospedale e ad essere curate con psicofarmaci anche contro la propria volontà viene usato per medicalizzare e trattare come malate le persone che vivono un disaggio, qualunque esso sia, anche quando la causa di questo è chiaro a tutti e riguarda il lavoro e la casa. Si può concludere dicendo che il TSO spacciato come superamento dell'internamento in manicomio è solo propaganda e l'apparato di garanzie e di tutele messe in campo dalla legge 180 sono di fatto puramente teoriche e di facciata. Il sindaco che dovrebbe essere il primo garante contro gli abusi si limita a ratificare le richieste di TSO operate dagli psichiatri del CIM ed il giudice tutelare che dovrebbe sorvegliare si limita a verificarne la correttezza formale del procedimento, senza tenere conto della dinamica reale dei fatti.
Come collettivo antipsichiatrico, che da anni contrasta gli abusi e le pratiche psichiatriche, denunciamo il trattamento sanitario obbligatorio subito da G.B. come un atto ingiustificato, spropositato e dannoso, come un vero e proprio abuso di potere che ha lo scopo di cambiare discorso, di spostare l'attenzione dai motivi reali del disaggio di G., casa e lavoro, e ridurli a scompensi celebrali per rilevare i quali non esistono analisi da laboratorio, ma solo ed esclusivamente il giudizio di uno psichiatra.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud – Pisa
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