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Roberto Bonzi. Uscire dalla gabbia della solitudine, per un’economia della felicità 
Sull'ultimo libro di Luciano Canova
20 Dicembre 2011
 

Luciano Canova

Una gabbia andò a cercare un uccello

L’ambiente e il suo valore

Libri Scheiwiller, pagg. 197, € 17,75

 

Capita che l’ambizione di un saggio venga tradita fin dalla scelta del titolo. È il caso dell’ultimo lavoro di Luciano Canova, docente di Economia ed Economia Sperimentale alla “Scuola Mattei”, che, nella sua ultima riflessione su economia, ambiente e felicità, prende a prestito un aforisma di Franz Kafka. In Una gabbia andò a cercare un uccello, infatti, la questione ambientale viene inquadrata indagando “a volo d’uccello” secoli di filosofia e storia del pensiero economico. Ne scaturiscono paralleli arditi, come quello che accosta il Robert Solow dell’ortodossia neoclassica al Callimaco che racconta la fame eterna di Erisittone. Incastonato nella teoria dell’equilibrio economico generale come un’archetipica cavia da laboratorio, l’Homo Oeconomicus vive in preda a una fame perenne, consumando beni fino a divorare se stesso.

Felicità, dunque, è la lotta per massimizzare. Da animale ottimizzante, l’uomo consuma, sostituisce e combina, in un processo che si replica all’infinito, approssimando l’equilibrio perfetto che avvicina all’idea di assoluto. La questione ambientale non sfugge alla regola: capitale naturale e capitale tecnico sono esattamente sostituibili e durano all’infinito. L’idea di mercato perfetto anestetizza la rete di connessioni emotive che vincola l’uomo ai suoi simili e all’ambiente che lo circonda. È la vittoria postuma di Platone su Aristotele: l’uomo è un animale in apparenza non relazionale, che si avvicina all’assoluto al prezzo di emanciparsi dal vincolo dell’interazione. Solo nella semplicità pura dell’Iperuranio ogni idea è cristallizzata e la felicità più completa. Ceteris paribus, Platone indica il cielo proprio come un economista neoclassico il punto di equilibrio.

Ma seguire questo approccio significa, per dirla con il Kafka citato nel titolo, immaginare che una gabbia possa partire alla ricerca di un uccello. Il rischio è quello di ingabbiare tra le maglie troppo strette della funzione di produzione neoclassica ciò che è libero (e forse non catturabile) per definizione: la natura. L’uomo, infatti, resta un animale sociale. La felicità non può essere misurata, ma la propensione a costruire relazioni con il prossimo ne fornisce un’approssimazione discreta. Che va indagata e restituita alla complessità che le spetta.

La felicità si nutre di relazioni che, come tali, non sono immaginabili al di fuori dell’ambiente. È la natura a rendere possibile la reciprocità che libera l’uomo dall’isolamento. Non si tratta della felicità di Bentham che, declinata in utilità, diviene grandezza oggettiva e misurabile, ma l’eudaimonia di Aristotele che trae forza dalla virtù. Senza una gestione etica dei beni ambientali, dunque, non può esistere felicità.

Il saggio di Canova è qualcosa di più di una semplice critica all’ortodossia economica. Nel rivendicare la centralità della riflessione sulla felicità nel dibattito scientifico, l’autore mescola i linguaggi e, con levità e autoironia, sposta la provocazione anche sul piano formale. E così la divulgazione più canonica viene spezzata da racconti umoristici, veri e propri “intermezzi” letterari che interrogano il lettore con paradossi dal sapore surreale. Le alternative al paradigma utilitarista e paretiano, ad esempio, vengono anticipate dalla storia del pifferaio di Hamelin, riscritta per l’occasione in nove variazioni sul tema, mentre ad illustrare i limiti del riduzionismo quantitativo viene chiamato in causa il professor Diogenes Paradox che, da un fantomatico Congresso Intergalattico di Studi Archeologici dell’anno 3811, riflette su quel poco che alla fine è sopravvissuto di tante astrazioni teoriche dei giorni nostri.

L’invito, nella varietà dei toni, è quello di superare l’approccio neoclassico, alla luce di una prospettiva nuova, aperta ad esempio alla contaminazione con le neuroscienze e alla portata innovativa del concetto di beni relazionali. Ciò che serve è tornare a ragionare “in termini di noi”. Ogni relazione umana ci rende dipendenti l’uno dall’altro. In contrapposizione a quella vita scevra dal vincolo delle emozioni che, secondo Platone, avvicinerebbe all’assoluto, si deve recuperare la lezione di Aristotele e la concretezza di una realtà fatta di tante imperfezioni.

La verità – e siamo alla tesi forte del lavoro di Canova – è che la felicità si realizza in un contesto di relazione in cui l’uomo interagisce con l’altro e con l’ambiente, ed è tale complessità che la teoria economica deve avere l’ambizione di cogliere. L’uomo che si illuda di rappresentare se stesso completamente ab solutus da ogni legame - con l’ambiente, con il passato, con l’altro - è liberò sì, ma soltanto di essere solo.

 

Roberto Bonzi

(da Linkiesta, 6 novembre 2011)


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