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Il canto del cigno di un Impero: “Radetzkymarsch” di Joseph Roth 
di Gabriella Rovagnati
14 Dicembre 2011
 

«C’era una volta un imperatore. Gran parte della mia infanzia e della mia giovinezza si svolsero nello splendore spesso impietoso di Sua Maestà, di cui oggi ho il diritto di raccontare perché allora m’indignavo alquanto spesso contro di essa in maniera feroce. […] Lui giace sepolto nella Cripta dei Cappuccini e tra le rovine della sua corona e io mi aggiro fra di esse ancora vivo. Di fronte alla maestà della sua morte e della sua tragicità […] tace il mio credo politico e solo il ricordo è desto. […] Quando fu sepolto, io ero lì, uno dei tanti soldati della guarnigione di Vienna nella nuova uniforme grigio-verde con la quale di lì a poche settimane saremo partiti per il fronte. [… ] Allo sconvolgimento suscitato dalla coscienza che si stava svolgendo una giornata storica, si accompagnava l’ambivalente cordoglio per il tramonto di una patria che aveva educato i suoi figli persino all’opposizione. E mentre ancora la condannavo, già cominciavo a rimpiangerla».

In queste frasi, scritte da Joseph Roth (1894-939), giornalista e narratore di origine ebraica e di lingua tedesca, in un elzeviro del 1928, dal titolo Sua Maestà apostolica imperial-regia, l’autore dichiara che il crollo dell’impero di Francesco Giuseppe, aveva significato per lui la fine di un mondo. Dice anche, implicitamente, che allo scoppio della guerra, dopo un primo momento di pacifismo radicale, si era sentito vigliacco e si era arruolato volontario nell’esercito, trovandosi così ad assistere, nel 1916, ai funerali del Kaiser. E dalle sue parole traspare infine il suo altalenante atteggiamento politico.

Dall’impegno giornalistico a favore di poveri e derelitti e dal vago socialismo delle sue prime opere in prosa, nei tardi anni venti, Roth – che, nato nell’odierna Ucraina, divideva allora la sua esistenza raminga fra Vienna e Berlino – era passato a toni più elegiaci e visionari e alla nostalgia dichiarata per quella monarchia la cui fine aveva segnato per lui la perdita di ogni stabile riferimento esistenziale. Al suo accorato rimpianto della compagine danubiana, che contribuì a mitizzare evocando gli splendori di un passato impossibile da ripristinare, Roth diede voce non solo in numerosi altri articoli di giornale, ma anche nel suo romanzo di maggiore respiro: Radetzkymarssch (La marcia di Radetzky), pubblicato nel 1932.

L’ascesa e il declino di una famiglia slovena sono al centro di questo romanzo, suddiviso in tre parti, che si apre con la scalata sociale di Joseph Trotta, figlio di un modesto furiere. Chiamato a servire la patria, egli conosce un momento di gloria durante la battaglia di Solferino (1859), quando, disarcionando con prontezza e coraggio l’Imperatore ed evitando così che la pallottola nemica lo trafigga, salva dalla morte il sovrano. Ferito a una clavicola, Joseph è compensato del suo gesto con la promozione a capitano e con il titolo nobiliare. Joseph “von” Trotta vive da allora nell’orgoglio di questo riconoscimento, finché un giorno si trova a leggere nel libro di storia di suo figlio una descrizione distorta dell’evento che lo ha visto protagonista a Solferino, che gli sottrae ogni merito e attribuisce tutta l’audacia al Kaiser. Non riuscendo a ottenere che la versione falsata dei testi scolastici venga riveduta e corretta, Joseph von Trotta decide allora di dimettersi dall’esercito e di ritirarsi in una tenuta boema, dove chiude in solitudine i suoi giorni. Offeso nell’onore, per il suo unico figlio Franz non prevede più la carriera del militare, ma quella del burocrate. Divenuto capitano distrettuale in una cittadina morava (le regioni orientali dell’Impero hanno una parte notevole e varia nella geografia del romanzo), Franz von Trotta conduce una vita ordinatissima, ritmata sul pranzo domenicale, dove viene sempre servito il “Tafelspitz”, il tradizionale bollito di manzo con salsa di rafano, e sulla Marcia di Radetzky, che la banda cittadina suona ogni domenica davanti a casa sua e che dà il titolo al romanzo. Attento alla disciplina fino alla pedanteria, Franz von Trotta è l’incarnazione del tipico impiegato asburgico, sicuro del proprio mensile e dei propri scatti di anzianità, ma anche privo di slanci e di fantasia. Portavoce di un conservatorismo tanto accanito quanto patetico, non accetta di ammettere la progressiva decadenza della monarchia e, ossequioso alla tradizione di famiglia, sceglie per il proprio unico figlio, Carl Joseph, di nuovo la carriera militare, augurandosi che vi si distingua come il nonno.

Naturalmente per il giovane viene scelto il prestigioso corpo della cavalleria. Divenuto sottotenente degli Ulani, Carl Joseph è iniziato all’eros dalla signora Slama, moglie di un modesto brigadiere, il cui decesso per parto lo mette per la prima volta a confronto con la morte ma anche con l’omertà di un ambiente più attento alla facciata che alla sostanza. Quando si reca a fare le condoglianze al marito della defunta, Slama, evitando scenate, gli consegna le lettere che l’ufficialetto aveva inviato a sua moglie dalla caserma. Anche Franz von Trotta, al corrente della relazione del figlio con la moglie del suo subalterno, soprassiede sulla questione, e la sua discrezione su questo tema scabroso è uno dei molti segnali di come tutto, nel mondo asburgico di fine secolo, puntasse a salvare le apparenze più che ad affrontare, problematizzandola, la realtà. Anche l’inappuntabile burocrate è cioè un esponente di quell’ambivalenza comportamentale che Freud avrebbe smascherato come “doppia morale”.

Il mondo che suo padre ha scelto per lui crea soltanto disagio a Carl Joseph, che vive come un peso il suo ruolo di ufficiale di cavalleria e in caserma conduce una vita schiva e malinconica, evitando i rapporti camerateschi con i colleghi del circolo ufficiali, che considera anzi boriosi bellimbusti, dediti al gioco e ai bordelli. L’unico compagno con cui Carl Joseph stringe amicizia è l’ufficiale medico Demant, un ebreo galiziano (come lo stesso Roth) che muore in duello proprio per salvare l’onore dell’amico in nome di un codice al quale von Trotta non riesce più ad attribuire alcun valore. Amareggiato, Carl Joseph passa alla fanteria e si fa trasferire in una guarnigione del Reggimento dei Cacciatori di stanza sul confine orientale con la Russia. Si trova così in un ambiente desolato, dove sia gli ufficiali del Kaiser – il cui ritratto accompagna le vicende come un’ossessione, onnipresente com’è in ogni pubblico locale – sia quelli dello Zar tentano di affogare nell’alcool noia e depressione. Tutti sbeffeggiano le funeste previsioni del conte Chojnicki, un bonvivant polacco che prevede l’imminente catastrofe dell’Impero. Trotta, invece, sente che ha ragione e gli diventa amico. Non c’è nessuno dei valori che suo padre ha cercato di inculcargli in cui Carl Joseph riesca ancora ad aver fede, tanto da deluderlo profondamente, quando questi gli fa visita nella sperduta guarnigione orientale. Franz von Trotta trova nel figlio un estraneo che non condivide più il suo credo nelle istituzioni e che diventa per lui la prova vivente che l’Impero è davvero ormai sul limite dell’abisso. La progressiva perdita delle sue sicurezze si acuisce con la morte del suo fedelissimo domestico e con le rivolte indipendentistiche dei cechi che deve affrontare tornando in Moravia, una delle molte tessere di un mosaico che sta per disgregarsi.

Carl Joseph, ormai dedito all’alcool e alla frenesia del gioco d’azzardo, resta ferito durante la manifestazione degli operai di una fabbrica che, nella sperduta regione di confine, rivendicano i loro diritti. Ma, diversamente da suo nonno, non ha la vocazione dell’eroe; ridotto sul lastrico dalle perdite al gioco, nonostante suo padre riesca a far intervenire Francesco Giuseppe in persona per salvarlo dal disonore, Carl Joseph si congeda dall’esercito e spera di ritrovare la pace ritirandosi in campagna e recuperando in qualche modo le origini contadine dei suoi avi. L’assassinio di Sarajevo e il conseguente scoppio della guerra lo richiamano però alle armi. Mentre sta portando dell’acqua ai suoi commilitoni, Carl Joseph cade sul campo.

Un requiem per la monarchia asburgica” è stato definito questo romanzo, attraversato dalla struggente malinconia di un mito possibile da rimpiangere, ma non da rivitalizzare. All’ultimo dei Trotta, Francesco Giuseppe non incute più solo sentimenti di rispetto e deferenza; all’Imperatore egli guarda ormai solo come a un povero vecchio un po’ rimbambito e consapevole delle proprie debolezze. Roth elogia sì, attraverso il suo personaggio, le doti diplomatiche del monarca e la sua indefessa volontà di conciliazione che puntava sempre alla composizione pacifica dei contrasti; ma lo presenta anche come il capo di uno stato e di un esercito che, come lui, sono ormai privi d’energia e tarlati dalla decadenza. Sua Maestà, insomma, non ha più nulla di maestoso e di marziale, e suscita più compassione che carisma. Il Kaiser, che un tempo era stato la garanzia dell’unità nella pluralità, è ormai soltanto la caricatura di se stesso.

Carl Joseph, contagiato dalla generale assenza di vitalità di un mondo allo sfacelo, non riesce più a instaurare con il proprio prossimo rapporti costruttivi. Si sente lontanissimo dal padre e dal suo programmatico immobilismo; i pochi che riconosce come amici muoiono prematuramente di morte violenta, e le sue relazioni sentimentali sono tutte all’insegna dell’effimero. Quando, per esempio, si reca a Vienna con la sua amante Wally Taussing, è fiero di aver conquistato una donna matura e dai costumi non proprio ineccepibili; ma sa anche bene che quella liaison non è che una parentesi, un legame fugace. Come tutti, anche Carl Joseph recita semplicemente la sua parte in una capitale dove tutto è spettacolo: dall’imponente processione del Corpus Domini all’ostentazione e allo sfarzo della bella società nei locali dislocati lungo la Ringstraße, teatro di quella scintillante fatuità che caratterizzò gli ultimi splendori dell’Impero.


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