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Gino Songini. Le crisi come le ciliegie: una tira l'altra 
Ma a pagare è sempre il povero Pantalone
08 Dicembre 2011
 

Non so cosa combinerà il governo Monti. So che deve affrontare un'emergenza economico-finanziaria mai vista, e che si appresta quindi ad adottare misure drastiche per contrastare la deriva che rischia di mettere in ginocchio non solo l'Italia, ma l'intera Europa. In quel caso l'Italia, stretta nella morsa del debito e della stagnazione, farebbe la fine del vaso di coccio stretto tra vasi di ferro (Germania e Francia) di manzoniana memoria. Crisi dunque, piena crisi. Del resto questa parola non è nuova. Si cominciò a usarla in tempi assai lontani, subito dopo la fine del magico quinquennio del “miracolo economico” (1958-1963). Per la verità si parlò allora di “congiuntura”, di una crisi per così dire di transizione, una specie di ponte sospeso tra un miracolo appena compiuto e un altro che sarebbe tornato a compiersi. Ci pensarono i duri anni Settanta a spazzare via le illusioni. La crisi petrolifera di quegli anni ci fece capire che non ci sarebbe stato nessun altro “miracolo”. Gli italiani si rimboccarono le maniche e andarono avanti sia pure in mezzo a una serie di difficoltà di ogni genere e di tragedie fatte di attentati, di sequestri di persona, di terrorismo. Le istituzioni democratiche traballarono ma ressero all'urto. I lavoratori difesero con le unghie e con i denti le loro conquiste, uomini politici di larghe vedute come Moro e Berlinguer tennero dritta la barra del timone in mezzo alla tempesta. Tempesta che però riuscì a togliere di mezzo Aldo Moro con il tragico sequestro di via Fani. La presidenza della Repubblica affidata a un uomo come Sandro Pertini ridiede fiducia a un popolo che pareva quasi rassegnato al peggio. Vennero poi gli anni Ottanta, durante i quali la collaborazione tra partiti di centro e socialisti (governi Spadolini, Craxi, De Mita) sembrò garantire al nostro paese un cammino più tranquillo, ma si trattava di un'illusione o di un abbaglio perché nei primi anni Novanta il terremoto politico provocato dagli scandali di “Tangentopoli” svelò quanta corruzione si celasse tra le pieghe della politica nazionale. Ben lontani dall'essere associazioni miranti al perseguimento del bene comune, i partiti, specialmente quelli al governo, si rivelarono per quello che erano, ossi comitati d'affari impegnati ad arraffare quanto era possibile grazie al potere di cui disponevano. Quel sistema politico entrò dunque in profonda crisi. Ci si avviò così al bipolarismo e alla nascita della cosiddetta “seconda Repubblica”. Nel frattempo il governo di transizione guidato da Giuliano Amato (1992-93) dovette affrontare un'altra grave emergenza economica che fece parlare anche allora di crisi, tanto che si arrivò a descrivere l'Italia, allora come adesso, come un paese “sull'orlo del baratro”. L'azione e il prestigio personale del capo del governo che seguì ad Amato, il futuro presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, contribuì non poco a migliorare la situazione e a offrire una più rassicurante immagine del nostro paese sulla scena europea e internazionale. E poi? E poi, lo sappiamo tutti, vennero Berlusconi e il berlusconismo, una lunga lunga stagione che, “te Deum laudamus”, abbiamo appena lasciato alle spalle. Preferisco stendere un velo pietoso su questi anni, anche se sento che prima o poi dovrò tornare a parlarne.

Adesso siamo qui, alla fine di questo aspro 2011, con una nuova crisi che si abbatte come un macigno su di un paese incerto e sfiduciato, una crisi che ancora una volta toccherà la vita della povera gente, quella che lavora e che dà lavoro, che tribola e che combatte ogni giorno in mezzo a mille difficoltà, spesso intralciata per non dire vessata da una burocrazia costosa e inefficiente, a volte priva di qualsiasi legame con la realtà delle cose. Fino a oggi, domenica 27 novembre 2011, mentre scrivo queste note, nessun provvedimento è ancora stato adottato dal nuovo governo di “tecnici” guidato dal professor Monti, ma è questione di giorni e poi si procederà lungo la linea già tracciata e che tutti ormai conoscono. Si provvederà a tassare le case, compresa la prima e unica casa d'abitazione, ICI e IMU non avranno riguardo per chi si è sacrificato una vita per avere un alloggio, verrà effettuata un'altra manovra finanziaria dopo quelle già fatte durante l'estate dal passato governo (e non è difficile prevedere un altro aumento del costo della vita, a partire dai beni di prima necessità, non esclusa la benzina), si procederà a un aumento dell'età pensionabile con la contemporanea adozione del sistema contributivo per tutti e conseguente decurtazione dell'assegno pensionistico. Insomma, se non saranno “lacrime e sangue”, come non ha voluto ammettere il professor Monti, poco ci manca.

Ma a questo punto, da uomo della strada, da incompetente di questioni sindacali, salariali e pensionistiche, vorrei dire anch'io la mia sulla spinosa faccenda delle pensioni e, tanto per non fare troppi giri di parole, dico subito che lavorare per quarant'anni a me sembra più che sufficiente. Ogni altro discorso non mi trova interessato. Quarant'anni in fabbrica davanti a un macchinario, o in ufficio davanti a un computer, o su di un'impalcatura ad alzare muri, o in una corsia d'ospedale a curare malati, mi sembrano davvero tanti. Quarant'anni della vita dedicati al lavoro forse non bastano? Oggi si comincia a lavorare, quando va bene, intorno ai trent'anni. Si vuole che la gente lavori fino al giorno del suo funerale? Tutti hanno bisogno di passare qualche anno in pace, senza impegni, senza l'obbligo di un orario, senza il ritmo duro e alienante del lavoro. Certo, sappiamo bene che il lavoro non è uguale per tutti: i presentatori televisivi e i politici possono tranquillamente continuare nel loro mestiere fino a novant'anni, così come certi intoccabili burocrati, così come certi dirigenti della RAI o di grandi società, o come alcuni direttori di importanti giornali, ecc. Molti di loro, nonostante siano vecchi decrepiti, sono ancora lì, senza alcuna intenzione di andarsene. Ma per loro il lavoro è sinonimo di prestigio, visibilità, autorevolezza, potere. Per chi fatica nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi, negli uffici, ecc., si tratta invece di qualcosa di molto diverso. Per chi sgobba da mattina a sera per tirare avanti, la pensione, se non è un sogno, è certamente un traguardo agognato. Non rendiamo più dura la vita a tanta gente. Rendiamoci conto che, lo ripeto, quarant'anni di lavoro sono veramente tanti. Del resto l'Italia non è andata a fondo neppure con le baby-pensioni (quelle sì una vergogna) erogate a gente che non aveva neppure quarant'anni di età. E adesso vogliamo che uomini e donne vadano al lavoro col bastone e i medicinali per la vecchiaia in tasca?

Chiudo riportando una notizia che mi ha colpito (nonostante se ne sentano di tutti i colori c'è ancora qualcosa che riesce a colpirci). Per esibirsi in una trasmissione televisiva nella quale sarà impegnato a ballare per dieci minuti alla settimana (pensate che fatica, poveretto), all'ex calciatore Bobo Vieri verranno pagati ottocentomila euro. Sì, avete capito bene: ottocentomila euro, alla faccia della tanto sbandierata crisi. Denaro della RAI, denaro quindi dei cittadini, denaro pubblico, denaro nostro. Ottocentomila euro per ballare dieci minuti a uno che ha guadagnato miliardi giocando a pallone. È un caso che fa riflettere. Uno dei tanti. Uno dei tanti scandali di questo scombinato paese che per affrontare le sue crisi, ormai tanto frequenti quanto le calamità naturali, si rivolge sempre, sempre, sempre, ai soliti poveri cristi.

 

Gino Songini

(per 'l Gazetin, dicembre 2012)


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