«Da noi in pianura i merli
sono i primi uccelli a cantare
e gli ultimi a salutare il giorno».
Voci nel silenzio, forse parola e rinascita, avvertimento di primavera, di concerto agiscono nello spazio atemporale della città di Ferrara. È la città del poeta; solitaria e nebbiosa e spaesante attraversata di «brividi d’anima» e richiami di merli, la «tacita oscurità» del percorso poetico dell’autore. Il biancore denso pietrifica nell’indifferenza e si «prende gioco del cielo» ma quando anche «il silenzio in agguato comincia a gelare» allora, proprio allora si evidenzia una dimensione «altra», non più rattenuta in Ferrara, che diventa lentamente paradigma della luttuosa messa a fuoco di un disagio che «ci» appartiene da sempre, quale nascosto fantasma del nostro andare. E tentativo di consolare il buio, mi sembra la voce forte di alcune liriche pur nella coscienza della caducità irrimediabile delle «cose» della vita.
Sarà la sua voce a scrivere: «Prometto a me stesso/ stamane impotente/ di bucarlo da sgombro,/ questo nostro vedere/ azzurro cronico./» oppure: «no, non mollerò./ Non finché l’alito mio/ muoverà scacco al re/» e ancora «Il Nero, se si impara a portarlo,/ non è poi così male./». A coloro che se ne vanno per non tornare, a loro, le liriche più intense della raccolta…
Matteo ripara all’assenza nell’immaginazione di voli alti, di profumi trattenuti dentro «il fumo odora di braci// innevate:/ pescate/ dalle tasche del nonno/ […], lasciami un senso», scriverà poi Matteo e in questa ondivaga ricerca che disegna la luce di qualche parola «slabbrata», la sua poesia diventa ricerca forte ed intensa, coinvolgente e contemporaneamente scheggiata in parole che solitarie feriscono, ma che mai abbandonano quello spazio sacrale al quale è destinata la poesia quando la si ama e la si avverta come modalità di viaggio, abbeveraggio, sosta, perdita e, mai inutile sanguinamento. Il riferimento a Montale fin dal titolo della silloge è riconoscimento consapevole di un grande che ha segnato il percorso della vera poesia. Ed insieme un’adesione intensa ed empatica al suo «non chiedermi la parola», alla sua «storta sillaba» e a quel disperato senso della parola «che squadri da ogni lato l’animo nostro informe». Matteo introietta la spasmodica ricerca del «lasciami un senso» insieme ai voli di corvi e merli attorno a «lampioni affezionati», persuaso come scriveva Montale che «l’ora più bella è al di là del muretto».
Patrizia Garofalo, Anghiari, dicembre 2011
Matteo Bianchi, Fischi di merlo
Edizioni del Leone, Venezia 2011, pagg. 64, € 8,00