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Espulsioni immigrati. “Le nuove norme italiane sono incompatibili con la Direttiva rimpatri” 
Così il Giudice di Pace di Firenze che ne chiede pertanto la disapplicazione
02 Dicembre 2011
 

Firenze – Ci siamo già occupati della nuova normativa italiana in materia di espulsioni di cittadini extracomunitari, sollevando forti perplessità sulla sua compatibilità con la Direttiva 2008/115/CE. All'indomani del recepimento in Italia della Direttiva comunitaria 2008/115/CE sul rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolari, le nuove norme sulle espulsioni introdotte con il d.-l. 89/11, convertito nella legge 129/11, non superano il vaglio giudiziale e iniziano ad essere emesse le prime pronunce di disapplicazione della normativa italiana in favore di quella comunitaria.

Il Giudice di Pace di Firenze (Dr Simone Bozzi) ha infatti recentemente annullato un decreto prefettizio di espulsione emesso successivamente all'entrata in vigore della riforma.

Un provvedimento di estremo interesse poiché parametra – in prima battuta – la legittimità del provvedimento impugnato non già ai casi previsti dall'art. 13 comma 4, d.lgs. 286/98 ma direttamente alle previsioni della Direttiva, sul presupposto della incompatibilità della legge italiana con il dettato normativo della Direttiva:

«rilevato che ai sensi dell'art. 7, IV comma, della Direttiva n. 2008/115/CE del 16.12.2008, gli Stati membri dell'Unione Europea possono astenersi dal concedere agli stranieri presenti irregolarmente sul loro territorio un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni se sussiste il rischio di fuga, se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta, o se l'interessato costituisce un pericolo per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale».

Data questa premessa, il Giudice fiorentino esclude che lo straniero ricorrente possa essere ritenuto un pericolo per l'ordine pubblico, per la sicurezza pubblica o per la sicurezza nazionale posto che «non risulta agli atti nessuna sentenza di condanna a carico del ricorrente per reati costituenti indice di pericolosità sociale», per poi analizzare in dettaglio la definizione di «rischio di fuga».

 

Ad avviso di chi scrive, un decreto di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera che si limiti a rilevare la sussistenza delle circostanze in presenza delle quali sussiste il pericolo di fuga, senza valutare, e motivare, nel caso concreto la effettiva sussistenza di un effettivo pericolo di fuga è illegittimo poiché emesso in violazione dell'art. 13, comma 4 bis del d.lgs. 286/98. È questa infatti la conseguenza dell'unica lettura possibile costituzionalmente orientata della norma in oggetto: «si configura il rischio di fuga […] qualora ricorra almeno una delle seguenti circostanze da cui il Prefetto accerti, caso per caso, il pericolo che lo straniero possa sottrarsi alla volontaria esecuzione del provvedimento di allontanamento [...]».

La formulazione della norma potrebbe risultare ambigua posto che parrebbe da una parte suggerire l'automatica sussistenza del rischio di fuga al ricorrere di una delle circostanze elencate, salvo poi dall'altra richiedere al Prefetto, nella fattispecie concreta, una valutazione «caso per caso». Delle due l'una, o il rischio di fuga si configura automaticamente ogni qualvolta sussistono le circostanze elencate (e allora sarebbe superfluo l'inciso «caso per caso») oppure, la presenza delle circostanze indicate dalla norma è solo il presupposto affinché il Prefetto possa compiere poi le valutazioni necessarie in ordine alla effettiva sussistenza del pericolo di fuga. Valutazioni che se elaborate devono essere esplicitate nell'atto amministrativo motivando sia in fatto che in diritto sulla concretezza del pericolo.

Accogliendo la prima ipotesi la norma italiana sarebbe illegittima, e andrebbe disapplicata ovvero andrebbe sollevata questione di legittimità costituzionale poiché contravverrebbe a quanto previsto agli artt. 3, comma 1, n. 7 e 12 della direttiva. Ciò perché lo spirito (e la lettera) di quest'ultima è di porre criteri sulla base dei quali poter valutare caso per caso la reale sussistenza di un pericolo di fuga («“rischio di fuga” la sussistenza in un caso individuale di motivi basati su criteri obiettivi definiti dalla legge per ritenere che un cittadino di un paese terzo oggetto di una procedura di rimpatrio possa tentare la fuga», art. 3, comma 1 n. 7), mentre il recepimento da parte del legislatore italiano non individua criteri ma circostanze in presenza delle quali il pericolo si presume, senza alcuno spazio per la valutazione della situazione specifica.

Accogliendo invece la seconda ipotesi, l'espulsione con accompagnamento coattivo fondata sulla mera sussistenza delle circostanze elencate al comma 4 bis dell'art. 13 d.lgs. 286/98 sarebbe illegittimo per omessa valutazione del caso di specie, nonché per difetto di motivazione in violazione dell'art. 12 della Direttiva Rimpatri («le decisioni di rimpatrio e, ove emesse, le decisioni di divieto di reingresso e le decisioni di allontanamento sono motivate in fatto e in diritto»), dell'art. 13 comma 3 d.lgs 286/98 («l’espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato»), nonché dell'art. 3 legge 241/90 che «la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione». L’amministrazione è pertanto tenuta a esplicitare, con motivazione non meramente astratta, bensì tenendo conto delle specifiche circostanze del caso concreto, le ragioni poste a fondamento delle proprie decisioni in materia di rimpatri.

 

Ma a ben vedere il Giudice fiorentino nell'accogliere la tesi della incompatibilità della norma italiana va anche oltre, analizzando il contenuto del comma 4 bis dell'art. 13 d.lgs. 286/98, che consente alla autorità di astenersi dal concedere un termine per la partenza volontaria in caso di:

a) mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità;

b) mancanza di idonea documentazione atta a dimostrare la disponibilità di un alloggio ove possa essere agevolmente rintracciato;

c) avere in precedenza dichiarato o attestato falsamente le proprie generalità;

d) non avere ottemperato ad uno dei provvedimenti emessi dalla competente autorità, in applicazione dei commi 5 e 13, nonché dell'articolo 14;

e) avere violato anche una delle misure di cui al comma 5.2.

Ad avviso del giudicante nessuna di tali condotte è di per sé' indice di un concreto pericolo di fuga, e dunque non sono idonee a fondare un provvedimento di accompagnamento coattivo:

«ritenuto che il significato dell'espressione “tentare la fuga” non possa essere esteso sino a ricomprendere la mera condotta di sottrazione all'esecuzione di un pregresso ordine di allontanamento dal territorio nazionale, né tanto meno il pericolo di una sottrazione all'esecuzione di un futuro ordine di allontanamento, come si evince anche dall'art. 7 III comma della Direttiva, ai sensi del quale, per la durata del periodo per la partenza volontaria, possono essere imposti obblighi diretti ad evitare il rischio di fuga, come l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l'obbligo di dimorare in un determinato luogo […] non rileva in contrario quanto disposto dal comma 4 bis dell'art. 13 d.lgs. 286/98 introdotto dall'art. 3, I co., lett. c) del d.l. 89/11 convertito nella legge 129/11 in quanto contrastante con il disposto del summenzionato art. 3 della Direttiva 2008/115/CE del 16.12.2008 e perciò dunque da disapplicare».

 

Non possiamo che concordare sia con il percorso logico giuridico effettuato dal giudice che con le conclusioni cui giunge. La nuova normativa italiana in materia di espulsioni non è conforme alla disciplina comunitaria e deve essere disapplicata.

Si tratta di una normativa, ad avviso di chi scrive, voluta più per una questione di facciata che di sostanza. Non c'è un vero intento di adeguamento, ma un tentativo – tipicamente italiota – di continuare a fare come si vuole facendo finta di adeguarsi alle prescrizioni comunitarie. Come avevamo previsto, il “giochino” è durato poco: le innovazioni in vigore dal 6 agosto 2011 non hanno minimamente soddisfatto le aspettative dell’Unione Europea, mancando un reale ed effettivo adeguamento degli istituti e dei rimedi italiani ai canoni sovranazionali imposti dalla direttiva. Ne consegue che il recente sforzo del legislatore italiano lascia impregiudicata la rilevanza e l’attualità del tema della diretta applicabilità (carattere self-executing) della normativa in parola, ampiamente confermata dalla giurisprudenza degli ultimi anni, sotto il vigore della precedente formulazione del d.lgs. 286/1998.

 

Emmanuela Bertucci, legale Aduc


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