Con gli strumenti «dell’antropologia elaborata nel secolo scorso da filosofi e scienziati tedeschi» insieme a quelli della moderna riflessione sulla dottrina dello Stato e della globalizzazione, Danilo Zolo (Fiume, 1936) in questo Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere (Feltrinelli, 2011) traccia una descrizione, si concentra intorno all’impianto narrativo (del fenomeno che intende osservare), tesse un racconto basato su suggestioni e immagini. Proprio questa potrebbe essere la manchevolezza del testo in questione (la mancanza di una rigida e determinata struttura analitica) ma, nello stesso tempo e da un altro punto di vista: tale caratteristica potrebbe anche costituire un punto di forza. Non più imbrigliata nelle strette del circolo ipotesi-dimostrazione-corollario, la filosofia a questo punto potrebbe scorrere libera proprio come uno romanzo o comunque una serie di episodi rilevanti e significativi dentro una cornice non più rigorosamente sistemica o metafisica o ontologica o epistemologica. Una filosofia, insomma, più predisposta non solo alla lettura e alla fruizione da parte del proprio «pubblico», ma anche notevolmente più agevole, snella, non vincolata a schemi e regole metodologiche, leggera. Zolo confeziona perciò un libro che mantiene inalterate le caratteristiche costitutive del saggio ma che tende a svincolarsi da modelli anchilosati e inflessibili per lanciarsi nel vasto mare del resoconto, dell’esposizione e della descrizione.
Il problema affrontato in questo libro dal giurista fiumano è dunque quello della «paura». Il punto di partenza - che costituisce anche la «base di una prima ipotesi esplicativa del fenomeno della paura» - è il concetto di «apertura al mondo» mutuato da «Maz Scheler e che autori come Herder, Bolk e Gehlen hanno poi ripreso». In sostanza – in relazione a un’idea del biologo e filosofo tedesco Johannes Johann von Uexküll – Zolo afferma che «ogni animale vive all’interno della sua Umwelt e cioè in un ambiente chiuso rispetto agli infiniti altri ambienti che lo circondano». L’uomo, invece, diversamente dagli altri animali, «deve ricavare da ambienti naturali diversissimi fra loro gli strumenti necessari che gli garantiscano la vita e la sicurezza. Questo è provato, sostiene Weber, dal fatto che mentre gli habitat di tutti gli animali “specializzati” sono geograficamente circoscritti, l’uomo riesce a vivere nei deserti e nelle regioni polari, a fianco di antilopi e di orsi bianchi, sulle montagne, nelle steppe e nelle giungle, in zone paludose, sull’acqua e in condizioni climatiche diversissime». Per cui l’«apertura al mondo» è «la capacità dell’uomo, e solo dell’uomo, di liberarsi dalla strettoia di un singolo ambiente naturale. Ed è, soprattutto, l’intelligenza teorica che consente all’uomo di manipolare il mondo stesso, di ridurne i rischi e quindi di controllare lo stimolo delle sue stesse pulsioni e di limitare la paura». Siamo di fronte a questa prima situazione narrativamente articolata: «in realtà la nozione di “apertura al mondo” nel significato attribuitole da Scheler, Herder e Bolk, e che Gehelen aveva adottato negli scritti dei primi anni sessanta, pone al centro l’interazione fra la gracilità umana e l’estrema pericolosità dell’ambiente naturale. L’incrocio fra l’uomo come “essere carente” (Mäbgelwesen) e il mondo come nemico della vita umana crea le premesse della paura e quindi la paura stessa». Parliamo ancora qui - in questo primo capitolo (dal titolo «Quando è nata la paura») - ancora solamente della paura individuale. L’uomo, in sostanza, è costituzionalmente «carente», «incompiuto», «segnato da un irreversibile “primitivismo organico”» e d’altra parte si trova ad essere continuamente anche frustrato dalla seguente circostanza, derivante dalla propria «apertura al mondo»: «l’uomo possiede potenzialmente l’infinita ricchezza dello spazio e del tempo, ma non dispone di un ambiente che lo accolga». La paura nasce, quindi, da motivi di ordine fisico e da motivi di ordine ambientale. Anzi, l’assenza di un «mondo» specifico e specializzato capace di accogliere l’uomo, non fa che acuire le sue «carenze». L’uomo deriva quindi le proprie «lacune e manchevolezze» da «ambiti naturali» difformi fra loro i quali gli forniscono «gli strumenti necessari che gli garantiscano la vita e la sicurezza». La paura individuale, in sostanza, è «un’emozione riflessiva, legata alla previsione allarmante di una possibile condizione di sofferenza, con il connesso tentativo di evitarla, di contenerla, di proteggersi o di essere protetto da altri».
La seconda descrizione messa in campo da Zolo è quella che riguarda la «paura da un punto di vista politico». L’autore da cui partire è Thomas Hobbes. «L’assunto di fondo di Hobbes è dunque lo stretto, inscindibile rapporto fra la paura e la politica, dove per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza». Ma c’è di più. «La paura che è stata assimilata dalla funzione autoritaria e protettiva del Leviatano viene, per così dire, neutralizzata ma non soppressa. Essa ricompare come capacità del “dio mortale” di produrre ordine e disciplina incutendo paura». Nasce dunque un «emozione o sentimento» di tipo nuovo con la nascita dello Stato moderno, o con l’uscita dell’uomo dallo stato di natura o, comunque, con la considerazione della «dimensione collettiva» in cui si trovano immersi gli esseri umani. Se è vero, infatti che esistono delle «ragioni che rendono gli uomini, se non certo creature solari, almeno soggetti comunicativi: nel senso che l’insicurezza, il bisogno, la sofferenza, la sua stessa fragilità psicologica possono indurre l’individuo all’accoglienza dell’altro, al dialogo» è anche vero che «l’organizzazione politica… è la replica collettiva più efficace che l’uomo abbia escogitato per “regolare la paura”». Da una parte, quindi, il dialogo, dall’altra l’ordine, la disciplina, la sorveglianza. E nel mezzo: una paura che cresce perché «per un verso ciascun soggetto umano ha paura di tutti gli altri, e per un altro verso i soggetti umani hanno timore del potere supremo del Leviatano e ubbidiscono rigorosamente ai suoi comandi per evitare di essere sottoposti alle sue pene». In virtù dell’ingresso, nella società, dell’organizzazione politica l’uomo può adesso «”sgravarsi” dal peso delle situazioni contingenti in cui si trova» ma, nello stesso tempo, può anche inevitabilmente essere sottoposto a condizioni inedite di «paura», «insicurezza» e «disagio» dovute proprio alla natura stessa di quell’organizzazione politica che egli ha edificato per la propria «sicurezza» e la propria «salvezza».
Ultima tappa del viaggio rappresentativo di Zolo è la contemporaneità. Il filosofo fiumano intende infatti effigiare nel quarto e ultimo capitolo (intitolato «Potere e paura nel mondo globalizzato») del proprio volume «la paura nel mondo “globalizzato”». L’assunto che qui è in gioco è presto detto: «il processo di globalizzazione, promosso e sostenuto dalle massime potenze occidentali, ha diffuso nel mondo nuove forme di paura. Si tratta ovviamente di paure collettive». Oggi, in definitiva: «la paura dei più è uno strumento essenziale per garantire il potere dei pochi». Accade che «chi detiene il potere fa in modo di essere lui stesso fonte di paura ricorrendo a un’ampia serie di strumenti simbolici e di rappresentazioni allegoriche. Oppure fa leva sulla paura prodotta direttamente dalla criminalità, esagerandone di proposito i dati - normalmente non attendibili -, drammatizzandone il pericolo e facendone la fonte di legittimazione del proprio potere repressivo e punitivo. In questo caso i detentori del potere si fingono come i possibili avversari della paura, e ottengono il massimo consenso popolare e una piena legittimazione politica». Siamo cioè passati da una paura intesa come emozione individuale - causata da alcune pecche di ordine naturale ed in rapporto all’ambiente circostante - ad una paura vista come ricaduta di una gestione politica (e dunque comunitaria) delle pulsioni private e personali, ad una paura infine avvertita come relativa all’intero sistema (scoiale, economico, politico, culturale) che sovrasta e sorregge la vita dell’uomo nel suo complesso. La narrazione delle diverse situazioni in cui si viene a trovare l’essere umano ha dunque termine a questo punto. Salendo sempre più di livello (dal particolare al generalissimo) Danilo Zolo ci ha introdotto all’interno di un universo popolato da un soggetto che «a cominciare dalla nascita… si trova in condizioni di estrema fragilità, di difficoltà operativa, di dipendenza da eventi imprevisti, oppresso da pericoli di ogni tipo nel corso di una vita che in teoria potrebbe essere più sicura e più lunga». È questo il senso di quella «antropologia realistica» che Zolo ha inteso tratteggiare in queste pagine alla luce, egli stesso lo dice, di «un pessimismo attivo, un pessimismo dell’indignazione, della solidarietà e della rivolta, non della rassegnazione e della tacita complicità con le menzogne politiche e religiose».
Gianfranco Cordì