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“Il cielo mi nega la gloria, il maggiore fra i beni della terra”. Omaggio a Heinrich von Kleist 
di Gabriella Rovagnati
21 Novembre 2011
 

Heinrich von Kleist non può essere inserito in nessuna delle correnti letterarie che dominarono il mondo di lingua tedesca a cavallo fra Settecento e Ottocento. Nato nel 1777 a Francoforte sull’Oder, Kleist visse in un tragico isolamento spirituale. La passione sperimentale, la volontà dissacrante e il duro realismo che pervadono la sua opera sembrano fare di lui l’erede più diretto del ribellismo dello Sturm und Drang, ma in realtà i suoi testi presentano una struttura unitaria e chiara, sono prodotti di una tecnica non affidata al caos, ma appresa sui modelli dei classici, di Lessing e di Schiller.

Figlio di una nobile famiglia di ufficiali prussiani, Kleist entrò inizialmente nell’esercito, salvo poi abbandonare la carriera militare per dedicarsi agli studi scientifici, poi interrotti, e alla filosofia, approfondendo soprattutto l’opera di Kant, fonte di quella crisi che gli precluse per sempre la speranza di arrivare alla verità ultima delle cose.

Dopo alcuni anni di vagabondaggio, ottenne un impiego nel demanio pubblico, fu trasferito da Berlino a Königsberg, dove concepì molte delle sue opere. Abbandonata la routine impiegatizia, per la quale proprio non sentiva tagliato, Kleist provò a sopravvivere come giornalista e scrittore. La sua avversione per Napoleone, soprattutto dopo la sconfitta da questi inflitta ai Prussiani a Jena, lo spinse a sfogare il proprio odio contro l’imperatore corso nel dramma La battaglia di Arminio. Gli ulteriori successi di Napoleone gli causano una profonda depressione; cercò di riprendersi, fondando con l’amico Adam Müller il primo quotidiano della sera in tedesco, i Berliner Abendblätter [Fogli serali berlinesi] e continuando a scrivere. Ma, come quasi tutto quello a cui metteva mano, anche quest’impresa fallì; deluso e in gravi difficoltà economiche, Kleist non riuscì più a trovare una via di scampo. Solo e incompreso, tormentato dall’incapacità di conciliare con la volgarità del reale uno spirito sempre alla ricerca del sublime, lo scrittore si tolse la vita nel 1811, a soli 34 anni, sulle rive del Wannsee, il lago nella zona sudoccidentale di Berlino non lontano da Potsdam.

Nonostante il tratto tragico che caratterizzò la sua esistenza, Kleist scrisse quel testo amaro (da tutti considerato una commedia) che è Der zerbrochene Krug (La brocca rotta, 1808), pièce in un atto, incentrata sulla figura di un giudice dissoluto che - una sorta di Edipo al contrario - cercando il colpevole, dimostra di essere egli stesso il malfattore, restando alla fine vittima delle sue stesse bugie.

Nella produzione kleistiana non mancano però le grandi tragedie della passione: un esempio è la Penthesilea (Pentesilea, 1808), costruita sulle contraddittorie pulsioni di odio e amore della regina delle Amazzoni del titolo per l’eroe omerico Achille. La protagonista, donna tenera e crudele ad un tempo, pur votata alla verginità, resta vittima del suo improvviso, folle sentimento per l’eroe greco e sacrifica alla propria furia sia se stessa sia il suo rivale.

La barbara frenesia di Pentesilea è, nel suo tratto esaltato, l’opposto della calma olimpica della Ifigenia di Goethe, che infatti per la tragedia kleistiana, che si muoveva, come ebbe a dire, in una regione a lui così estranea e remota, non ebbe alcuna comprensione. Il mondo dell’eroina di Kleist, innamorata fino all’antropofagia, non si ricompone affatto in armonia: in lei si assiste, anzi, a un trionfo radicale del “dionisiaco”.

Sempre divisi fra l’affermazione della propria individualità e l’adesione a un sistema di convenienze al quale la loro natura si ribella, sono anche i protagonisti delle novelle di Kleist, quali Michael Kohlhaas, campione della disobbedienza civile, che un senso profondo di giustizia trasforma da esempio di rettitudine in assassino, o La marchesa di O., che cedendo in stato d’incoscienza alla pulsione erotica, si ritrova gravida e rivendica i propri diritti di madre oltre i dettami di facciata imposti dal ceto sociale a cui appartiene, attento solo alle apparenze.

I giudizi, contemporanei e postumi, sull’opera di Kleist non furono unanimi. Il romantico Ludwig Tieck, che per primo ne raccolse e pubblicò l’opera, pur non risparmiando all’autore qualche critica, ne considerava degna di lode l’audacia tematica e stilistica. I personaggi nati dalla fantasia di Kleist sono, infatti, tutti temerari, rispondono sempre in maniera incondizionata alla chiamata del proprio demone, all’imperativo categorico di una passione che calpesta e travolge le coordinate della razionalità e non si arrende di fronte all’apparente evidenza dei cosiddetti dati di fatto. Perché per Kleist non era possibile una conciliazione duratura fra il proprio sé e la concretezza dell’esistere: per questo il suo mondo - come quello delle figure nate dalla sua fantasia - non conosce tregua ed è sempre attratto dall’ignoto e dal baratro.

A oltre cento anni dalla morte di Kleist, Stefan Zweig (che pure si tolse la vita insieme a una donna, la sua seconda moglie) lo descrisse come un uomo sempre in fuga verso l’abisso, che invano tentò di opporre alla “patologia del sentimento” che lo spingeva all’autoannientamento quella “sacra hybris” che comunque non valse a salvarlo da se stesso. Nella trilogia Der Kampf mit dem Dämon (La lotta col demone) Zweig affianca a Kleist due spiriti affini, Hölderlin e Nietzsche, che invece che nel suicidio scelsero di rifugiarsi nell’ottenebramento della follia.

Rifiutò invece gli eccessi di Kleist il nostro Benedetto Croce, giudicando per esempio la Pentesilea il prodotto di “un delirio di rabbia”, liquidando come “insulsa e goffa” l’Alcmena del rifacimento kleistiano dell’Anfitrione di Molière, “intellettualistico” il Principe di Homburg, da molti invece giudicato uno fra i personaggi più maturi e meglio riusciti del teatro kleistiano, ed etichettando nel complesso la produzione di questo scrittore come “non poesia”.

Oltre all’esorbitanza delle tematiche che predilige, anche la lingua di Kleist è impegnativa, perché gioca con l’ipotassi e subordina al periodo principale una serie infinita di subordinate; ma gli archi rampanti del suo fraseggio reggono alla fine la costruzione, come nella più ardita cattedrale gotica. Questa scrittura spinta fino alle estreme possibilità sintattiche presenta inoltre una punteggiatura irregolare, dove abbondano i trattini, usati come segni ritmici in un flusso incalzante, dove la tensione è sempre al massimo.

Questo talento stilistico suscitò la piena ammirazione di Thomas Mann, che colse il virtuosismo meditato della prosa di Kleist e la perfetta struttura di un complesso, ma solo in apparenza contorto, periodare, che fanno di lui uno scrittore unico e straordinario. Altro lettore entusiasta di Kleist fu Franz Kafka, che da Kleist apprese soprattutto il gusto per l’aneddoto, la prosa breve e fulminante.

I nazisti, adattandolo alla propria ideologia, fecero di Kleist il prototipo dell’ufficiale eroico che si sacrifica per la patria e, sfruttando il suo odio per Napoleone e i francesi, lo mistificarono a modello di martire immolatosi in nome della libertà della Germania; strumentalizzando il tema della ferocia incontrollata di molti dei suoi personaggi, ne fecero un paladino della violenza, trasformandolo da sconfitto in trionfatore.

A partire dalla secondo metà del Novecento, Kleist è invece unanimemente accolto dalla critica come l’incarnazione del binomio “genio e sregolatezza”. Studi d’ogni genere - di taglio psicoanalitico, sociologico, biografico - hanno nel frattempo tentato di venire a capo del “mistero” Kleist, che tuttavia continua ad affascinare proprio perché ancora avvolto da quell’aura arcana che caratterizza anche i suoi personaggi, sempre dotati di una sensibilità superlativa, al limite del patologico, sempre immersi in un’atmosfera sinistramente magica e quindi sempre propensi al delirio e all’allucinazione, e in ogni caso sempre “sorpresi” da una realtà di cui non sanno accettare le coordinate.

A duecento anni dalla morte melodrammatica di Kleist, che il 21 novembre 1811 prima sparò all’amica malata di cancro che aveva scelto di morire con lui, e poi si tirò un colpo in bocca, gli omaggi che gli sono stati resi in tutto il mondo sono innumerevoli. Dal “Literaturfestival” di Berlino e dalla Heinrich-von-Kleist-Gesellschaft è stata proposta una lettura mondiale di testi kleistiani da farsi proprio nel giorno della sua morte. L’antologia proposta e qui presentati in una mia traduzione, spazia fra i vari generi dell’opera di Kleist. Si parte da un breve saggio, un resoconto da cui emerge l’ironia mordace dello scrittore, a una poesia che inneggia alla pace. Segue l’incipit della novella La marchesa di O., dove già dalla prima frase si viene confrontati con il paradosso di un “evento inaudito”: la gravidanza inspiegabile di una vedova morigerata, divisa fra l’esaltazione per il “dono” che porta in grembo e il bisogno di sposare, almeno pro forma, il padre del nascituro per non infliggergli l’infamia dell’illegittimità. L’elemento paradossale è al centro dell’aneddoto successivo, dove un magistrato si trova ad assolvere “suo malgrado” un soldato colpevole di diserzione che lo disarma - e questo è l’aspetto geniale del breve pezzo - proprio con un uso subdolo della logica. Alla pagina iniziale del breve racconto Il trovatello - dove si affronta il tema delle aspettative deluse di un padre adottivo che viene indotto dalle malefatte del figlio alla violenza e all’autodistruzione -, segue un brano tratto dal testo teorico più noto di Kleist Sul teatro delle marionette, che tanta influenza ha avuto sulle dottrine teatrali della modernità, da Gordon Craig a Stanislvskij. In questo saggio l’autore statuisce la superiorità della marionetta sull’attore, incapace di riprodurre sempre lo stesso gesto perché vittima della precarietà e variabilità delle sue pulsioni. Dopo le frasi iniziali del lungo racconto Michael Kohlhaas, ambientato in un medioevo dominato dal sopruso e dalla prevaricazione che induce il protagonista alla metamorfosi radicale da prototipo di lealtà e onestà a farabutto, si passa alla scena finale di Pentesilea, nella quale la regina delle Amazzoni prende coscienza di aver dilaniato in una ridda smodata di baci e morsi il corpo del suo amato Achille. Altri tre brani paradossali attaccano in successione un sistema pedagogico falso e obsoleto, le virtù predicate dai dei cosiddetti benpensanti, che, di fatto, sono trappole per gi esseri pensanti e l’insulsa ansia dell’umanità verso la gloria. C’è poi l’ultima lettera di Kleist all’amata Marie, moglie di un lontano cugino di Kleist e maggiore di lui di 16 anni, personalità in vista nel mondo altolocato berlinese del primo Ottocento, con profondi interessi per l’arte e la letteratura e stretti legami con la corte a Berlino, che fu amica e confidente del poeta nel periodo finale della sua vita. All’estremo saluto epistolare alla sorellastra (figlia della prima moglie del padre) prediletta Ulrike segue infine quella “litania di morte” che rende testimonianza dell’estremo dialogo esaltato fra Kleist e Henriette Vogel, uniti dalla passione per la musica e dall’incapacità di adattarsi a un mondo per il quale si ritenevano inadeguati. Si tratta dei messaggi che i due si scambiarono l’ultima notte, trascorsa insieme nello “Stimmings Krug”, la locanda gestita dai coniugi Stimming, dove, bevendo rum e caffè e scrivendo lettere di commiato, prepararono, in apparenza con grande serenità e leggerezza, il loro plateale gesto finale.

 

 

>> Heinrich von Kleist. World wide reading, 21 novembre 2011
Scelta di brani nella traduzione di Gabriella Rovagnati [PDF]

 

>> Omaggio a Heinrich Von Kleist
Piccolo Teatro di Milano / Goethe-Institut Mailand [PDF]


 
 
 
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