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Gianfranco Cordì. La morte, la terra e il «gran finale» 
Sul nuovo libro di Emanuele Severino
17 Novembre 2011
 

Proviamo a tracciare uno scenario. Da una parte c’è il «destino». Ovvero «l’apparire della necessità della differenza dei differenti, e insieme della necessità dell’esser sé e non l’altro da sé, da parte di ognuno dei differenti». Ogni elemento è perciò se stesso nel «destino» e non può mutare, cambiare, cangiarsi in qualcos’altro. Dall’altra parte c’è la «terra isolata». Questa «è in ogni sua parte la follia estrema che intende l’esser cosa come l’esser altro da (cioè il non essere) ciò che esso è». Il «mondo» - che «appare nel cerchio originario e in ogni altro cerchio del destino» - è quella «fede» (che è quindi «volontà» e quindi «dubbio») che gli elementi in esso presenti siano altro da sé: che mutino, che possano trasformarsi, che diventino qualcosa di diverso da quello che essi stessi erano in partenza. Sulla scorta di tale scenario, Emanuele Severino in questo suo La morte e la terra (Adelphi, 2011) costruisce un impalcatura teoretica molto conseguente anche se un po’ intricata e a momenti, forse, un po’ inintelligibile. Intanto la «terra isolata» si chiama così perché è «separata» dal «destino». Questa disgiunzione è stata portata a termine dal «linguaggio». Ed infatti, la «terra isolata» reca con sé due giudizi di valore: 1) essa è l’«errore»: 2) essa è anche «interpretazione». Ma la «terra isolata» non è la sola terra con cui abbiamo a che fare all’interno di questa storia. Esiste anche la «pura terra» che «è la terra in quanto appare nello sguardo del destino della verità». Noi sappiamo allora che «ad ogni tratto della terra isolata corrisponde un tratto della pura terra degli déi appartenente a quel cerchio». E questa «corrispondenza» è necessaria ed eterna. Così come sono eterni tutti gli «elementi» (Severino li chiama gli «essenti») i quali sono contenuti nella «terra isolata». Così come eterna è la loro «relazione» (che è anche necessaria). E come, ancora, eterne sono le «tracce» (le quali non sono altro che «la necessaria presenza di ogni essente in ogni altro essente – necessaria, in quanto ogni essente, essendo eterno, è necessariamente in relazione ad ogni altro essente») presenti, anch’esse, nella «terra isolata». Ed, infine, eterna è «la relazione… tra la terra isolata e il destino». Le altre «terre» intanto sono: la «terra dell’alba», che è «la più antica, la prima a sopraggiungere» nella «costellazione dei cerchi del destino»; seguita «dalla terra dell’aurora». Poi c’è la «terra che salva» mediante il cui sopraggiungere «l’isolamento della terra è oltrepassato».

Ma non è ancora finita. Viviamo in un mondo di contatti, di rapporti e connessioni in cui ogni cosa è strutturalmente costituita in modo da superare il tempo. E questi legami ed addentellati coinvolgono la globale esistenza del Pianeta con riferimento alla sfera del destino. Anche il mondo è concatenato rispetto al corso degli eventi (considerato come predeterminato, immutabile ed indipendente dalla volontà umana). E l’«isolamento» della terra è destinato ad essere sorpassato ancora una volta dal «linguaggio». Afferma infatti Severino che «quando nella terra isolata di un cerchio del destino sopraggiunge il linguaggio che testimonia il destino, è necessario che essa incominci a mostrare un volto essenzialmente diverso… Il sopraggiungere di tale linguaggio è l’inizio del tramonto della terra isolata… In quanto iniziale, che non porta a compimento la volontà, questo è il tramonto astratto della terra isolata». Che cosa avviene dunque in tale momento particolare? «Col tramonto dell’isolamento della terra tramonta la volontà che crede nel diventar altro delle cose e la volontà empirica che, sul fondamento di quella prima volontà, vuole farle diventar altro». Cioè «con la morte di una volontà empirica muore, ossia ha compimento, nel cerchio in cui tale volontà muore, anche l’apparire della terra isolata in quanto esso è l’apparire di ciò che tale volontà (come ogni altra) vuole far diventare altro». Ogni «volontà empirica» vuole «l’impossibile»: vuole che le cose siano «altro» da ciò che sono. Col «tramonto» della «terra isolata»: le cose non sono adesso più altro da ciò che sono; muore anche questa «volontà». Viene ristabilito il vero, l’autentico, il genuino.

Sentiamo ancora Severino: «col tramonto dell’isolamento della terra, è destinato ad apparire, nell’Io del destino, l’estremo bagliore della Gioia». In definitiva: «quando una volontà empirica muore, incomincia ad apparire, non più contrastata dalla terra isolata, la destinazione del cerchio in cui essa muore, cioè l’anticipazione formale della terra che salva e della Gloria della Gioia». Quando in un cerchio del destino sopraggiunge la morte della «volontà empirica»: sopraggiunge un’ «istante». Si tratta di quel momento brevissimo di tempo all’interno del quale ha compimento la stessa «terra isolata» oltre che la «volontà». Ma non solo. In tale attimo ha termine «il contrasto» tra la terra isolata e il destino ed ha fine anche lo stesso «sopraggiungere della terra». Si verifica che «con la morte, dunque, la terra isolata ha compimento perché non sopraggiungono più altre determinazioni della terra isolata (e della pura terra), ma non sopraggiunge ancora la terra che salva dall’isolamento, che è si compiuto, ma permane nel suo non essere ancora salvato, ossia come la dimensione le cui contraddizioni non sono ancora oltrepassate dal contenuto della terra che salva». Emanuele Severino afferma ancora: «quando, nel cerchio di un esser Io del destino, muore la volontà empirica che appare nella terra isolata di tale cerchio, con questa morte (dunque prima dell’avvento della terra che salva) appare in quell’esser Io lo splendore della Gioia che, sia pure in modo formale, per la prima volta appare come non contrastata dall’isolamento della terra». Ed infine: questa Gioia «è la fonte inesauribile della Gloria».

Il percorso del filosofo di Brescia è così segnato del tutto. Noi siamo poca cosa. La nostra vita, le nostre occupazioni, i nostri desideri, i nostri sogni, i nostri dolori sono «menzogna». La nostra stessa «fede» è «malafede». Esiste un altro «mondo» che ci sta accanto; un «mondo» che potremmo definire un contesto, un orizzonte o uno sfondo. È il regno del «destino». Dall’incontro e dallo scontro fra il nostro mondo e quello ultraterreno si ha l’itinerario esatto della nostra esistenza caduca e mortale. Se ogni cosa (qui nel nostro «mondo») è eterna, è chiaro che essa non può diventare null’altro da sé. È questo il problema di Severino. In fondo egli descrive un universo duro, rigido, inflessibile e rigoroso. La «necessità» vi opera sempre e instancabilmente. Anche il suo «destino» è spietato. Esso ha infatti a che fare con un che di costante, di fisso, di stabile, di inalterabile e di invariabile. E dentro questa «epifania» di ciò che non può essere modificato, inaspettatamente, l’autore della Struttura originaria riesce a far trovare posto anche all’ottimismo. Tutte le cose sono dirette verso il bene. Gli «essenti» posseggono tutti una direzione già stabilita in partenza. Le cose, gli uomini, le delusioni e i turbamenti e i fatti della vita non sono mai «neutri». Essi tendono verso la «Gloria». L’ottimismo metafisico di Severino non riesce, però, a sposarsi molto bene con l’«acribia» dei suoi ragionamenti riguardo il «destino» e la «necessità». Questi due concetti infatti contengono, è vero, una determinazione ma tale «strada» non è ovvio che vada a finire dritta dritta nella «Gloria». O almeno: non è affatto «conseguente» alle dimostrazioni prodotte per arrivare fino a questo punto.

Insomma, Severino traccia uno scenario (peraltro molto avvincente) piuttosto che scrivere un libro di sincera metafisica Occidentale. Egli non riesce ad andare al di là del disegno e del progetto perché intravede solamente la realtà (cui la sua metafisica dovrebbe riferirsi) ma non ne fa un problema aperto (se non fino a un certo punto). Si, è vero, nel mondo «le cose diventano altro»: e questo è un «interrogativo» cruciale e sempre rinnovatesi della nostra tradizione filosofica. Le cose vanno verso la loro morte; senza dubbio: è questo è un «quesito» fondamentale del nostro pensiero teologico. Ed è anche vero che gli uomini e la natura sono gli «stessi»; che esiste la «realtà»: e questa è la «questione» di base da cui è partita da sempre la scienza. La contraddizione di Severino è dunque perfettamente giustificata. La sua soluzione, invece, è parziale. È un punto di vista, un modo di vedere le cose, una visione del mondo. Non è completamente metafisica e non riesce ad essere scienza. Forse si avvicina un po’ alla speculazione teologica e per certi tratti ricorda Spinoza…

Questo La morte e la terra presenta dunque tali caratteristiche: connotazioni che lo rendono da una parte un libro affascinate, dall’altra qualcosa di oscuro ed esoterico. Un contributo, comunque, al dibattito sul senso del divenire e del suo opposto: la costanza e l’inalterabilità. Le preferenze di Severino (nel suo discorso escatologico complessivo) vanno a quest’ultimo oggetto. Sulla linea di Parmenide ma anche, potremmo tentare di dire, degli scienziati della natura che credevano e credono che «qualcosa», comunque, alla fine «rimane» e «c’è» dentro al perenne trasmutarsi di tutti gli enti.

 

Gianfranco Cordì


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