L'anno scorso è stato quello della celebrazione del centenario della nascita di Giuseppe Mezza, detto el Peppin o il Balilla. Il più grande calciatore italiano di tutti i tempi. Indelebilmente a strisce neroazzure. Bicampione del mondo con l'Italia nel 1934 e 1938. Un artista della sfera di cuoio con cui riusciva a compiere qualsiasi magia. Il ragazzo di Porta Vittoria, dall'incantevole lingua milanese, era un prodigio sportivo e un fenomeno di costume. Conscio della sua bravura, ma anche, nella migliore accezione del termine, inguaribilmente e semplicemente popolare. Piaceva alle donne il Pepp, con quel capello imbrillantinato, un po' meno era gradito a difensori e portieri, anzi per questi costituiva un autentico terrore: li surclassava tutti e tutti li bucava con reti di ogni fattura, compreso il celeberrimo gol a invito, quello in cui, quasi esitando (mefistofelicamente), chiamava fuori l'estremo difensore per poi impietosamente piazzare la palla come un gattone felpato.
Sulle pagine di tellus abbiamo sovente parlato delle sue mirabili imprese, offrendo la giusta celebrazione a un genio irripetibile, cerniera fra il calcio dei pionieri e quello destinato a divenire rito di massa, abile quant'altri mai, il Pepp, ad accendere fantasia e immaginazione della gente (a partire dalle prime radiocronache). Ci va, in ogni caso, di citare un romanzo dedicato a Giuseppe Meazza: L'ultimo dribbling del Balilla, autore Mauro Colombo, prefazione di Bruno Pizzul (Morellini Editore, pp. 256, euro 17,90).
Pagine in cui s'intersecano con sapienza presente e passato, vicende private e pubbliche, con un piccolo mistero ad aleggiare, rappresentato da un anziano tifoso interista, il Rapetti, uomo dalla limpida tipica bonomia e ironia meneghina aiutata e accentuata dal sapido dialetto della città del Porta e del Tessa. Dal terzo scudetto interista del '30 con il ventenne centravanti a furoreggiare (fu anche capocannoniere con 31 reti) alla tripletta contro i maestri magiari a Budapest, seppelliti per 5-0 con i primi tre gol marcati dall'elegante, ed efficacissimo, giovinott de Milan. Dalla leggendaria partita di Highbury, persa per 3-2 contro gli altezzosi inglesi – sotto 3-0 e con il portiere Ceresoli a parare un rigore Meazza fece due gol e l'Italia in 10, a Monti avevano rotto l'alluce, rischiò di riagguantare i giocatori d'Oltre Manica – all'ultimo mondiale vinto in terra di Francia e all'ultimo suo scudetto, 1938, con la Beneamata e, in mezzo, dribbling e reti a raffica, illuminazioni e trionfi, il “piede gelato”, il declino, seppur acceso di bagliori, le macerie della Guerra Mondiale, Istanbul dove le campane non suonavano.
Intanto fra il dipanarsi di quei ricordi color seppia l'Inter di Mourinho vince e convince e Dario, il protagonista, vive la propria vita, l'amore a bussare alla sua porta, il calcio come un soave sottofondo.
Poi, la sorpresa finale. Perché gli eroi non muoiono mai. Soprattutto quando le loro gesta vengono tramandate dalla forza delle parole, da quel sentimento collettivo che continua ad alimentare la memoria, le immagini del campo carpite dalla potenza dell'immaginazione, prima dell'era televisiva.
Vai, Pepp...
Alberto Figliolia