Fino a 50 anni fa era ancora possibile fantasticare sulla fine del mondo rappresentandola come un momento sincronico, nel quale a causa di un evento unico (il bottone premuto da qualche potente impazzito, la bomba sganciata in un luogo che innesca una reazione a catena...) il pianeta implodeva, (o esplodeva), e la vita così come fin lì era nota terminava. Ora sappiamo che così non è: da decenni nel mondo si susseguono, alcune nel silenzio altre nel clamore momentaneo, piccole e grandi catastrofi che di fatto descrivono un mosaico di perdita, danno, avvelenamento e strage di vite umane, animali e vegetali che sono già la fine del mondo. Quando 20 anni fa è nato il mio primo figlio ho preso atto che almeno 12 corsi d'acqua e 3 laghi erano scomparsi, e nemmeno i nomi avrebbe mai saputo. Così, nella mia regione d'origine, le cinque terre ora sono diventare tre, e a distanza di 40 anni ho rivissuto a Genova la violenza dell'acqua che porta morte dal cielo ma anche da sotto terra, e quest'ultima uccide perché male imbrigliata e resa elemento assassino dall'incuria umana.
Mi ha colpita una breve riflessione di una donna genovese, Lidia Prato, che ha ricordato in maniera vivida quello che accadde nel '70, quando l'intero quartiere dove abito, la Foce, si trasformò in una laguna ruggente: «Genova non era Firenze e non suscitò l'ondata meravigliosa di affetto e di amore per la cultura che portò migliaia di giovani da tutto il mondo a spalare per salvare e riportare alla luce i tesori dell'arte fiorentina, patrimonio di tutta l'umanità. Genova dovette fare quasi da sola e lo fece con grande passione e dignità. Le scuole furono chiuse e i giovani, da tutte le zone della città si armarono di pale e stivali e si presentarono nei luoghi più colpiti a chiedere se c'era bisogno di una mano. All'inizio, si trattò di interventi spontanei e sporadici: si aiutava il negozio conosciuto, si spalava sotto casa o nella strada dove abitavano parenti o amici. Ma, a poco a poco, i soccorsi si organizzarono. Il punto di raccolta era la palestra del Liceo D'Oria, di fianco alla Questura, ai piedi della scalinata con le grandi caravelle floreali. I ragazzi arrivarono a gruppi o singolarmente, venivano organizzati in squadre e inviati nei punti dove c'era più bisogno. Le scuole, ovviamente, chiusero per almeno due settimane e un'intera generazione si trovò a vivere una straordinaria avventura di solidarietà e di libertà. Il simbolo di quei giorni era l'impronta di una manata sporca di fango che i ragazzi si davano vicendevolmente sulle magliette. Bastava quella per salire su un autobus (allora c'erano i bigliettai) senza pagare e la gente ti guardava con rispetto e ammirazione. Si viveva fuori casa, si spalava per ore e ore sotto il sole e dai negozi di ogni strada (gente che aveva perso tutto o quasi) arrivava sempre la focaccia calda da mangiare e un fiasco di vino. Le regole abbastanza rigide di allora saltarono completamente (quasi più che durante il '68) e, per la prima volta, la generazione dei “capelloni” che la serissima Genova aveva sempre considerato con una punta di severità, si guadagnò sul campo la stima di tutti. Per le strade fiorirono i cartelli “Grazie giovani” e i giornali lanciarono una specie di concorso di idee per “ringraziare” gli “angeli col fango sulle magliette”. Non se ne fece nulla o quasi, i ragazzi tornarono a scuola. Qualche pezzo di libertà rimase nei comportamenti di tutti i giorni, molto di più nel cuore e nei ricordi di quelli che lavorarono giorni e giorni per salvare la loro città».
Fa impressione, oggi, sentire l'acredine violenta attraverso le radio e le tv locali di quanti, invece di tacere per il lutto e mettersi a disposizione per aiutare, (per fortuna ci sono anche gruppi che lo stanno facendo) insultano ex post chi capita a tiro, fa rabbia che nonostante il buon senso e l'ordinanza di non usare le auto private ci sia chi invece circola senza urgenza. I tempi sono cambiati, peggiorando tutto, anche il senso civico e la percezione del proprio posto nel mondo, che intanto ci sta restituendo tutta la violenza che gli abbiamo fatto.
Monica Lanfranco