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Afghanistan. Le motivazioni del voto 
La dichiarazione del gruppo Rifondazione comunista-Sinistra europea al Senato
31 Luglio 2006
 

Non intendo difendermi né scusarmi, quello che ho deciso ho deciso in piena libertà, né avrei potuto farlo in altra forma, non giudico chi ha deciso in altro modo o con altra procedura, vi ripeto quasi alla lettera la dichiarazione di voto che ho reso a nome del gruppo Rifondazione comunista-Sinistra europea al Senato. A me era già capitato di trovarmi in grande dissenso con ciò che era stato proposto dal governo per l'appunto sulle dichiarazioni iniziali, quelle sulle quali la fiducia è d'obbligo: la proposta di Prodi, e le sue decisioni nella formazione del governo sulla presenza delle donne avevano suscitato subito grande sconcerto e rabbia in "Usciamo dal silenzio", abbiamo fatto subito assemblee a Milano Roma e Napoli: a Roma ero presente e avevo dichiarato che avendo chiesto di poter intervenire nel dibattito generale avrei “parlato contro, ma votato a favore”, poiché nell'accettare la candidatura mi ero impegnata a cacciare Berlusconi e a impedirne il ritorno e ciò si faceva con una coalizione composita nella quale la sinistra era ed è minoranza. Ho chiesto a compagni che stanno nelle varie commissioni di presentare in seguito proteste-proposte sul tema della rappresentanza delle donne ecc.: non so se l'abbiano mai fatto, su questi argomenti il silenzio è generale, dato che il patriarcato è anche e solidamente a sinistra. Ero e sono convinta che nell'epoca della complessità e col sistema maggioritario la coalizione è una forma quasi obbligata, sicché per me l'altro vincolo era ed è di mantenere sostenere rendere abituale il metodo del consenso per affrontare i vari problemi, un vincolo quasi “a prescindere”, poiché sennò la sinistra viene subito messa in minoranza e lasciata ai margini e il governo si ritrova con un'altra maggioranza più a destra, oppure imbocca con il consenso e addirittura l'attiva pressione di Napolitano e Marini (le due prime cariche dello stato) la strada per la Grande coalizione. Nel dissenso bisogna discutere tenacemente e premere di continuo, se è possibile non dividendosi tra chi è più “qualcosa” di altri, a partire da decisioni che indichino un qualche mutamento di indirizzo. Una cosa defatigante, ma a mio parere obbligata, come fa il ministro Ferrero. Inoltre delle varie forme per costruire la volontà politica (conta di maggioranza minoranze e formazione di correnti; centralismo democratico; comando) il metodo del consenso è certo il più democratico, libero e liberante, non omogeneizza, insomma è quello del futuro, e bisogna addestrarsi ad usarlo. Personalmente non amo chi chiede la fiducia per acconciarsi a votare qualcosa che non condivide nel profondo, ma non giudico chi ha scelto questa modalità, che tuttavia non può essere invocata troppo di frequente senza avere un sapore un po' ricattatorio e l'effetto di indebolire il governo.

 

Ecco quanto ho detto: «Esprimo a nome del gruppo Rifondazione comunista-Sinistra europea il voto favorevole all'articolo 2 del provvedimento in oggetto (il decreto sulle missioni militari all'estero) sul quale il governo ha posto la fiducia. Per quanto mi riguarda il mio voto è dato con piena coscienza responsabilità e libertà. Certamente non con gioia poiché la materia è grave dura e molto inquietante. Chiunque l'affrontasse con leggerezza e banalità sarebbe censurabile. Ma lasciamo me stessa e veniamo al merito. Una significativa novità nella politica della Difesa e di conseguenza nella politica estera sono state le dichiarazioni del ministro Parisi alla Commissione Difesa, che con una ampia esposizione ha disegnato un concetto di difesa molto politico e non esclusivamente militare e questo come è stato rilevato già da altri senatori del nostro gruppo è un mutamento significativo: preferisco usare il termine “mutamento”, che discontinuità, come già ha fatto un paio di giorni fa il ministro Visco, a proposito del decreto Bersani e suo. Sul mutamento introdotto dal ministro in carica si può e si deve lavorare per rientrare da una politica estera e della difesa di timbro militarista e del tutto subalterno al governo USA, come pure introdurre il soggetto Europa: il contrario di ciò che ha perseguito per cinque anni il governo Berlusconi.

«Non sono certo necessari sondaggi per sapere che i popoli non amano la guerra; è una vicenda secolare di rifiuto, a partire dall'antichità e sintetizzata nella giaculatoria cristiana: “A peste fame et bello libera nos, Domine”; e l'autolesionismo per sottrarsi alla leva in tempo di guerrra è stato praticato nella prima e nella seconda guerra mondiale, pur di non andarci. La questione non è dunque quanti dicano di volere la fine della spedizione in Afghanistan e altrove: la questione è capire come si può rendere efficace tale desiderio, quando non ci sono numeri sufficienti ed esistono vincoli internazionali che ostacolano tale decisione: come si fa dunque a rendere efficace questa propensione dei popoli, che poi le guerre le fanno sempre?

«Qui soccorre la differenza tra “pace” e “politica di pace”. Pace non è, come sembra credere il senatore Mannino, che vi ha dedicato precise distinzioni nel suo intervento, né pacifismo, né irenismo, né un nobile ideale, né un anelito dell'anima, cioè è anche tutte queste cose, ma quando diventa “politica di pace”, deve prima di tutto essere una politica, cioè una azione pratica, inserirsi nei contesti, coinvolgersi criticamente con le possibilità date, costruirne di nuove, e così formare una cultura politica, una nuova cultura politica: se si pensa che di pace non esiste nemmeno nel diritto internazionale positivo una definizione giuridica e si chiama pace l'interruzione o la sospensione dei conflitti armati, quasi ancora, come in Roma antica la chiusura o apertura del tempio di Giano, si converrà che il lavoro da fare è molto, concreto, preciso, non vago ed emotivo. Resta sennò sempre senza risposta l'anelito dei popoli alla pace, resta senza risposta la domanda di Cindy Sheenan a Bush: “Per quale nobile causa ha dovuto morire mio figlio?”. Se non sapremo rispondere a questa domanda, non serviranno le nostre gridate dichiarazioni decisioni testimonianze. Nel movimento per la pace si conviene di chiamare “politica di pace” quella che è capace di gestire, governare i conflitti attraverso il metodo dell'azione nonviolenta. “Azione” nonviolenta, dico e non nonviolenza, opzione filosofica con carattere di assolutezza e spesso non agibile. Una politica di pace è una positiva azione per bloccare, far recedere, fermare, sottrarre “ragioni” ai conflitti armati, per trasformarli in conflitti politici diplomatici culturali economici, appunto con il metodo paziente tenace sperimentale dell'azione nonviolenta. L'azione nonviolenta chiede formazione metodi addestramento: si tratta di una vera politica, che -ad esempio- con superiore efficienza le donne dell'Unione, senza tanta esposizione mediatica né minacce di crisi hanno messo in atto, firmando tutte un breve documento nel quale si dicono le posizioni delle donne, il nostro diverso modo di affrontare i conflitti e chiediamo si faccia presto una seconda conferenza internazionale con le parlamentari afgane dopo quella tenutasi nel 2002, per conoscere anche le opinioni desideri proposte delle interessate sulla situazione del loro paese, dato che afgani e afgane sono finora “interpretati e decisi” da noi, invece che “consultati e ascoltati”.

«Ma il fatto più impegnativo è che abbiamo da affrontare una questione enorme, cioè come gestire una mastodontica residualità, quella della guerra, uno strumento orribile e inefficace, che non risolve anzi aggrava qualsiasi questione affronti, essendo come ben dice una costituzione del Vaticano II “alienum a ratione”: e si converrà che definire “extrema ratio” una cosa che si è appena definita “fuori di testa” è una bella e irresolvibile aporia... Si rifletta sul fatto che dopo la seconda guerra mondiale nessun esercito regolare ha mai più vinto una guerra, Francesi e Usa hanno perso in Vietnam, la Francia poi in Algeria, l'URSS in Afganistan, il padre Bush nella prima guerra del Golfo, il figlio benché abbia unilateralmente dichiarato di aver vinto in Iraq e in Afganistan non è ancora riuscito a cavarne i piedi vittorioso; e Israele, dotato di uno dei più potenti addestrati e motivati eserciti del mondo non può venire a capo dei popoli che lo circondano e non può con tutta evidenza affidare la sua sopravvivenza alle armi, ma solo alla difficile graduale tenace politica di pace tra due stati e due popoli. Dopo l'atomica che rende impossibile qualsiasi “risarcimento”, che il diritto internazionale chiede per definire una guerra “giusta” in tutto, non solo nelle sue eventuali motivazioni (resistenza a una occupazione, invasione ecc.), la guerra non può più avere alcuna legittimità. Affrontare quest'ordine di problemi riempie la politica estera e della difesa di contenuti che ci sovrastano a uno a uno e tutti/e insieme, non si può perdere nemmeno un minuto in vicende personalistiche, affermazioni di sé, proclamazione di nobili principi che non sono accompagnati da nessuna procedura di esecuzione: bisogna darsi da fare per tentativi ed errori».

 

Lidia Menapace


 
 
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