Sergej Ejzenstejn ebbe negli anni Venti un’idea audace: trarre un film dal Capitale di Karl Marx. Era una sfida: dimostrare che il linguaggio del cinema, ancora soltanto visivo, fosse in grado di esprimere concetti filosofici. Ejzenstejn non riuscì a trovare finanziamenti per il film, né negli Stati Uniti, né successivamente nell’Unione Sovietica di Stalin. Un regista tedesco, pochi anni fa, ha ripreso in mano quel vecchio progetto, ma, da quanto mi risulta, senza riuscire a condurlo in porto.
L’idea era ambiziosa e originale, e in mano a un regista di genio come Ejzenstejn avrebbe forse dato buoni frutti. E tuttavia l’insuccesso è significativo. Il cinema può descrivere molto bene tanti aspetti dell’esperienza umana, ma per quanto riguarda la filosofia, la parola - la semplice parola - è probabilmente uno strumento di espressione insostituibile, più duttile e più efficace.
Il tema che ha voluto affrontare David Cronenberg, con il suo ultimo film, A dangerous method, non è altrettanto arduo, ma è certo, per il cinema, assai difficile. Ha voluto raccontare non soltanto la storia d’amore tra lo psicanalista Carl Gustav Jung e una sua paziente, Sabina Spielrein. Ma anche la disputa che contrappose Jung a Freud. Si è servito dell’opera teatrale di Cristopher Hampton, autore anche della sceneggiatura del film, che ha attinto alle lettere che si scambiarono i due psicanalisti; e che ha tentato un’onesta opera di divulgazione.
Ora, poiché nella storia si contrappongono due personaggi – anzi tre, perché anche Sabina Spielrein entra a un certo punto in conflitto con Jung – la vicenda sembra prestarsi bene a essere trattata da un dramma. Però se la disputa tra Freud e Jung sfocia in un conflitto personale, ha origine in una contrapposizione tra due teorie, o tra due linee di ricerca psicanalitica. E sarà che un film ha una durata limitata; sarà che, nelle sue forme tradizionali - che Cronenberg rispetta – un film non sopporta un carico eccessivo di parole a scapito delle immagini; fatto sta che la sceneggiatura semplifica eccessivamente le argomentazioni dei due contendenti. Viene fuori un Freud tetragono alle innovazioni di Jung, un po’ per ragioni di realpolitik – teme che possano screditare la nascente psicanalisi - un po’ perché Jung non è ebreo. E così è dogmaticamente deciso a spiegare i disturbi della psiche sempre e soltanto con il sesso.
D’altro lato le tentazioni mistiche di Jung hanno qualcosa di superstizioso e di maniacale. Il che è riduttivo nei confronti di entrambi; e soprattutto non corrisponde alle intenzioni degli autori, se nelle didascalie finali del film, si dice che Jung diventerà “il più grande psicologo del mondo” (il che – a me che non sono uno specialista – suona come un’ulteriore semplificazione).
Intendiamoci: Cronenberg è un regista di talento, particolarmente maturato nei suoi ultimi film. E le sue qualità si dimostrano anche stavolta. Basti considerare le fini descrizioni dei luoghi e dei personaggi, della clinica dove lavora Jung.
Ma ecco: Michal Fassbender – che interpreta Jung – e Viggo Mortensen – che è Freud – sono due ottimi attori. Però le loro stesse fisionomie non evocano per nulla due fini intellettuali come Jung e Freud (più convincente semmai è la Knightley nel ruolo di Sabina Spielrein).
E poi: prima Freud e poi Jung sono stati due pionieri nel campo della psicanalisi (nel film, Freud afferma: “Ho messo il piede su una terra sconosciuta”). Ma nel caso di Jung, il fascino e lo sgomento di fronte all’ignoto che sono del pioniere, vengono stranamente trasferiti dal campo della ricerca scientifica, alla vita privata. Cosicché quando cede alla seduzione della sua paziente (masochista, d’accordo: ma per uno psichiatra il masochismo non dovrebbe essere un’assoluta novità) risulta sconvolto, incredulo di sé, preda di furiose contraddizioni, come il più sprovveduto degli uomini. Tanto che viene da commentare, banalmente: “Medico, cura te stesso”.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 20 ottobre 2011)