Ultimi a partire*
Ho scosso il capo motivato
dalla voce che non avevo:
un uomo si comportava da tale
e offriva la sua quiete in vagone
ad una donna orientale,
dai capelli consunti
e calcate le occhiaie.
Una piccina le dormiva in braccio.
Al posto del batticuore
sosteneva il ringhio ai randagi
e il ghigno agli sciacalli stolti
con indosso pochi abiti corrotti.
Ho sorriso ad un ragazzo africano
pagare la differenza di tratta ad un altro,
forse del suo stesso scomparto,
o forse era il colore della pelle
e la condizione svilente.
«Scendete alla prossima fermata»,
perentorio il controllore:
la reazione della platea a bordo
fu la stessa della notte,
porre fine ai guaiti ubriachi del giorno.
Il bello educa.
* Pubblicata sull’antologia Oltre le nazioni, a cura di Gianmario Lucini, CFR-Poiein, 2011
Una lirica concreta nei versi che hanno cercato di scolpire la durezza di quel disagio notturno. Non provato da me, ma dagli inaspettati compagni di vagone. Un’inappartenenza sociale soltanto testimoniata dai miei sguardi, ma condivisa dalle mie parole; almeno ci ho provato, ho mosso la penna per una causa. Un’inappartenza che nulla ha a che fare con gli Xenia di Montale, in cui il poeta avvertiva i versi raccolti non fossero suoi – ma della cara «Mosca» – e forse nemmeno del suo tempo. In questo frangente, invece, scrivo di persone in grave difficoltà con il loro tempo, emarginate, poiché provenienti da altri paesi o economicamente svantaggiate.
Poesia orientata all’impegno sociale, poesia come strumento per denunciare, per opporsi in modo marcato, incisivo alle disuguaglianze sempre più diffuse. Una fotografia che riporta gli atti disumani; che non si ferma all’obiettività dell’inquadratura, ma vuole giungere all’onestà intellettuale della resa.
Non voglio scomodare voci autorevoli come Neruda o Lorca, amici e accomunati dall’impegno poetico volto a superare barriere storiche, arrivando anche in paesi nei quali era bandita qualsiasi libertà di espressione, grazie a irripetibili doti comunicative. Infatti il Portogallo degli anni settanta rappresenta uno di quei paesi in cui l’opera di Neruda arrivò nonostante la censura e che ispirò molti giovani poeti che vedevano in lui un modello di libertà di pensiero, a loro negata. In un altro momento storico, i soldati italiani diretti al fronte avevano nello zaino le Occasioni - disincantate, ma pervase da uno strenuo ardore - uscite il 14 ottobre 1939, data di per sé eloquente.
L’opera del poeta cileno si è ispirata a quella dell’amico granadino, ucciso nel 1936, mentre viveva un periodo di profondo cambiamento, perché si faceva più concreto il suo impegno politico, non trascurando, però, la sua dimensione intimistica; Neruda e Lorca erano accostati anche dalla stessa considerazione della poesia, «la cui capacità è quella di salvare gli uomini dall’oblio, al di là delle crudeltà del mondo», ha concluso la docente di Letteratura spagnola Maria Caterina Ruta, ad una conferenza tenutasi presso il centro culturale Biotos di Palermo.
Sento, letteralmente, di concludere con i versi di un grande della poesia italiana, Giovanni Raboni. Poeta che ho trovato qualche anno fa, mentre la sera cercavo conforto nelle parole degli illustri contemporanei quando erano giovani, e le ho trovate, folgoranti, in Gesta Romanorum di un Raboni tra i diciotto e i vent’anni; il quale tracciava già allora il solco della lirica attuale, pure fondendo due tempi storici tanto distanti, ma allo stesso modo estremi del segmento Occidente, il suo e quello di Cristo.
Sperando in una poesia senza paura della società in cui germoglia e dalla quale è annaffiata giorno per giorno, riporto di seguito i versi di cui l’ultimo intitola l’omonima raccolta Garzanti, ricordati anche dal poeta Gianni Montieri in uno dei post di Poetarum Silva; versi che su quel traghetto metafisico accomunano tutti gli esseri umani. Vita e giornata coincidono inevitabilmente e sono scommessi per un approdo; tutti siamo ultimi arrivati, chi prima, chi poi, e qualche Intellettuale si prende ancora cura, come Erri De Luca, di coloro che restano indesiderati.
Imbarcadero
I pochi che aspettano, pochi
per volta, pochi e sempre, che il traghetto
torni dall’altra riva
filando piatto, silenzioso
tranne i colpi da sotto, sordi,
dell’acqua scolorita
nel furioso nevischio di dicembre
e alla Salute, a San Tomà nessuno
che parli, solo uno
che si raschia la gola,
bestemmia, tende la mano all’obolo – oh diletti
vi ho ritrovati, vi ravviso
sotto ombrelli e cappucci, è il vostro corpo
stranamente visibile
che ancora migra, si riunisce
di là dopo la terra,
a tanto caro sangue…