Frank Zappa diceva che l’informazione non è conoscenza e che la conoscenza non è saggezza, che la saggezza non è verità e che la verità non è la bellezza, la bellezza non è l’amore e l’amore non è la musica. Frank Zappa sosteneva: music is the best. Alla base di tutto, come primo passaggio logico di questa stupenda poesia (tratta da “Joe's garage”, quello che ci svela l’oscurità dell’ignoranza), sta l’informazione. Vediamo quindi quali sono gli antefatti che, storicamente, ci portano fino al caso di Sonam Tsering e dei suoi compagni, alcuni dei quali purtroppo già fucilati; giovani che non hanno fatto altro che manifestare una diversità di opinione, cercando di informare il mondo dell’attuale condizione tibetana ed inneggiando ad una ritrovata indipendenza della loro terra da noi chiamata “il tetto del mondo”.
Fin dal gennaio del 1950 l’allora nuovo governo cinese rese pubblica la sua decisione di “liberare” il Tibet. I cinesi aprirono le ostilità il 7 ottobre del 1950, ad aprile del 1951 erano alle porte di Lhasa; la resistenza tibetana costò circa 4.000 caduti. Nella comunità internazionale nessuno si mosse. I cinesi fecero firmare a una delegazione tibetana un documento chiamato eufemisticamente “Accordi sulle misure per la pacifica liberazione del Tibet”. I 17 articoli di questo accordo sancivano tra l’altro che: «...le Autorità Centrali non porteranno alterazioni al sistema politico esistente nel Tibet. La posizione, le funzioni, i poteri del Dalai Lama non subiranno cambiamenti. I funzionari dei vari ranghi manterranno le loro cariche» (art. 4). «Sarà rispettata la libertà religiosa. La fede, i costumi, le abitudini del popolo tibetano verranno rispettati: i monasteri dei lama saranno protetti» (art.7). «Si darà sviluppo all’educazione scolastica della nazionalità tibetana, allo studio della cultura tibetana ed allo studio della lingua parlata e scritta» (art. 9). «Nei riguardi delle riforme non vi sarà alcuna compulsione da parte delle Autorità Centrali» (art. 11). «L’esercito di liberazione popolare entrando nel Tibet terrà come linea di condotta i principi sovra esposti, farà acquisti e vendite secondo giusti prezzi, non prenderà arbitrariamente né un ago né un filo dal popolo» (art. 13).
Fino al 1953 l’occupazione si limitò a grandi opere di ingegneria che potremmo definire “neutre” come la costruzione di strade, ma poi si passò ad un feroce conflitto tra cinesi e tibetani, tra materialisti e buddisti. Per gli occupanti essere anche moderatamente ricco equivaleva a peccare non contro gli dèi ma contro il dio popolo; quindi il colpevole andava denudato di ogni avere e, se resisteva, distrutto. I lama peccavano perché consumavano senza produrre. I templi, i monasteri andavano adibiti a stalle, caserme, granai, officine. I bambini andavano tolti ai genitori se questi davano il minimo segno di eresia; venivano allora inviati in Cina per essere rieducati in un atmosfera più sana. Tra il 1953 ed il 1959 i tibetani si erano riuniti in bande ed avevano costituito un mobilissimo “Esercito volontario di difesa nazionale” che durante certi periodi ebbe in mano vaste zone del Tibet meridionale ed occidentale. Nel marzo del 1959 il 14° Dalai Lama fu costretto alla fuga in territorio indiano. La repressione militare trasformò le famose riforme in un saccheggio che ha causato decine di migliaia di profughi sostituiti da centinaia di migliaia di militari cinesi ed altrettanti coloni che si dedicarono prima al taglio delle foreste primordiali tra l’Himalaya e la Birmania, poi allo sfruttamento dei giacimenti minerari, auriferi, di uranio, di pietre preziose. Col 1965 venne proclamata la nascita della Regione Autonoma Tibetana ma, subito nel 1966, le Guardie Rosse della rivoluzione permanente, ovvero della rivoluzione culturale, distrussero la gran parte dei monasteri, della letteratura e delle opere d’arte di carattere religioso presenti in Tibet; di circa 2.000 tra templi e monasteri se ne sono salvati più o meno una ventina.
Per avere un’idea della repressione cinese in Tibet nel periodo che va dal 1959 al 1992 bisognerebbe leggere l’autobiografia del monaco Gelugpa, ordine che fa capo al Dalai Lama, Palden Gyatso: Tibet, il fuoco sotto la neve, Sperling & Kupfer, Milano, 1977; il racconto di un trentennio di detenzione nelle varie prigioni che costellano l’attuale Tibet dove basta un’accusa di oppositore dello Stato per subire detenzioni lunghissime. In certi casi il dramma termina con la condanna a morte eseguita con un colpo di pistola alla nuca, evento comune, come ci dice Amnesty International, in tutti i territori cinesi; talvolta la disperazione del perseguitato è tale che ricorre al suicidio. Il monaco Palden Gyatso passò i primi anni di detenzione immobilizzato da ceppi di metallo alle mani e ai piedi che non gli venivano mai tolti né di giorno né la notte. Una cosa che fa riflettere su quanto profondo e disumano possa essere il lavaggio del cervello al quale i tibetani sono stati sottoposti dagli invasori cinesi è il fatto che molti dei peggiori aguzzini nelle varie prigioni tibetane sono, nel racconto di Palden, collaboratori di entrambi i sessi, tibetani essi stessi, premiati per la loro conversione col permesso, anzi con l’incoraggiamento di tormentare i nemici del popolo. Tra i metodi di tortura purtroppo degni di nota il manganello elettrico: un bastone da infilarsi nei vari orifizi dell’oppositore dello Stato che causa dolorosissime bruciature. Non per scusare i cinesi, ma per cercare di capirli nella loro bestialità, occorre tener conto che, per millenaria tradizione culturale, essi si sentono investiti dal sacro compito di civilizzare il barbaro, di renderlo presentabile, simile agli Han, di liberarlo dalle sue superstizioni e dalle sue rozzezze; in simile quadro ogni mezzo è lecito, stante l’altezza, e per loro addirittura la nobiltà, del fine.
Una delle armi più spregevoli, tra quelle impiegate dai cinesi nel loro piano di genocidio culturale dei tibetani è stata l’apertura di sezioni a luci rosse nei quartieri nuovi di Lhasa per diffondere droga e prostituzione tra la gioventù autoctona. A livello politico non si può non citare la repentina scomparsa del 7° Panchen Lama, Lobsang Tseten, forse avvelenato subito dopo avere duramente criticato la politica cinese in Tibet. Morto per arresto cardiaco dissero nel 1989 i cinesi, ma poi, nel 1995, le forze di polizia cinesi sequestrarono il bimbo tibetano Ghedun Cholkyi Nyima, nato nel 1989 e riconosciuto dal Dalai Lama come legittimo successore del Panchen Lama defunto e da allora del piccolo Panchen Lama non si è saputo più niente. L’incidente ebbe una eco mondiale ed il Parlamento Europeo nel 1995 dichiarò uno stato di «grave preoccupazione per la notizia del sequestro del bambino tibetano Ghedun Cholkyi Nyima e dei suoi genitori da parte delle autorità cinesi». Successivamente è comparso dal nulla un candidato cinese come 8° Panchen Lama, si chiama Gyalchen Norbu.
Per avere un’idea approssimativa della portata della tragedia tibetana dobbiamo considerare che su una popolazione di nemmeno sei milioni di abitanti all’incirca un milione e duecentomila sono stati i morti e centocinquantamila i profughi. Dal 1995 al 2008 l’invasione tibetana sembrava dimenticata dall’opinione pubblica mondiale nella speranza che la Cina, essendo passata dal comunismo al capitalismo di stato, avesse superato l’uso della tortura, la pena di morte, l’espansionismo coloniale, ma i fatti del 2008 e le recenti condanne a morte ci fanno dire che i cinesi sono semplicemente rimasti indietro nell’evoluzione della civiltà. Nell’aprile 2009 iniziarono i processi: due giovani tibetani, Lobsang Gyaltsen (27 anni) e Loyak (25 anni), furono condannati a morte con esecuzione immediata della sentenza. Furono fucilati il 20 ottobre dello stesso anno. Altri cinque giovani tibetani furono condannati a morte ma l’esecuzione della sentenza fu sospesa per due anni: Tenzin Phuntsok, 27 anni, condannato nell’aprile 2009, Kangtsuk, 22 anni, condannato nell’aprile 2009, Penkyi, 21 anni, condannata nell’aprile 2009, Pema Yeshi, 28 anni, condannata nel novembre 2009, Sonam Tsering, 23 anni, condannato nel maggio 2010. Tragica dimostrazione del perdurare di questo stato di crisi è l’immolazione di Tsewang Norbu, un giovane monaco del monastero di Nyitso che, alle 12:30 del 15 agosto 2011, si è dato fuoco dopo aver gridato per alcuni minuti slogans inneggianti all’indipendenza del Tibet e al ritorno in patria del Dalai Lama.
Qualche anno fa a Milano, grazie anche alla generosità di alcuni valtellinesi, ebbi l’occasione di ascoltare gli insegnamenti di Sua Santità Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama. Ricordo due degli argomenti che Sua Santità espose ciclicamente, come è in uso in oriente, enunciando un postulato a più riprese, approfondendolo, arricchendolo di contenuti e adottando diversi punti di vista: “la solitudine è sofferenza” il primo e “la realtà è in divenire” il secondo. Vorrei con questo dire che, di fronte alla pena di morte inflitta da un essere senziente ad un altro essere senziente, non possiamo non sentirci tutti tragicamente soli e che solo la speranza che il divenire del reale ci porti tutti e indistintamente ad uno stato di liberazione ci trattiene dal ritenerci purtroppo tutti condannati a morte come Sonam Tsering.
Gabriele Corazza
(per 'l Gazetin, ottobre 2011)
(Riferimenti storici riassunti da Note sulla storia del Tibet di Fosco Maraini; altre fonti: www.freetibet.eu e www.ticinotibet.ch).