Titolo originale: La piel que habito. Soggetto: Pedro Almodóvar, tratto dal romanzo Tarantula di Thierry Jonquet. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: José Luis Alcaine. Montaggio: Jos Salcedo. Musiche:Alberto Iglesias. Interpreti. Antonio Banderas, Elena Anaya, Blanca Suarez, Marisa Paredes e Jan Cornet. Produzione: El Deseo. Distribuzione: Warner Bros.
Pedro Almodóvar non si smentisce e ci regala un altro piccolo gioiello da aggiungere a una lunga collezione di capolavori. La sola cosa pessima del film è la traduzione del titolo, ma non è colpa del regista se l’edizione italiana non ha conservato l’originale spagnolo che possiede ben altra forza evocativa. Il regista costruisce un melodramma con atmosfere thriller (stile Legami, sempre interpretato da Banderas), sconfina persino nell’horror, ma conserva il suo tratto inconfondibili d’autore, uno stile trasgressivo che l’ha reso famoso nel mondo. I personaggi sono almodovariani fino in fondo, perché in un modo o nell’altro sono tutti segnati dalla follia e dal dolore. La storia non si racconta facilmente, perché molto complessa e intrecciata secondo le regole del melodramma, ambientata in una Toledo solare che fa da contraltare a interni cupi e claustrofobici. Il protagonista (Banderas) è un chirurgo plastico rimasto vedovo dopo la morte della moglie, che vive per vendicarsi del ragazzo che ritiene colpevole di aver spinto al suicidio la figlia. Marisa Paredes è un’ottima madre-governante che ha la follia nel sangue, ha generato due figli pazzi come il chirurgo e un bandito surreale che entra in scena vestito da uomo-tigre. Elena Anaya è bellissima e altrettanto brava nella difficile interpretazione di una donna costruita dal chirurgo partendo dal corpo del presunto violentatore della figlia.
Almodóvar affronta in un solo film il tema della follia, parla di diversità, transessualismo, esperimenti genetici proibiti, amore malato, rapporti familiari che vanno a pezzi. Se vogliamo cita persino il mito di Frankenstein quando vediamo la mutazione da uomo a donna e la costruzione di una nuova pelle, resistente al fuoco. Il regista è un terrorista dei generi, perché in una sola pellicola contamina melodramma, horror, thriller, commedia, lasciando un segno indelebile della sua arte. Il romanzo di Jonquet è ridotto ai minimi termini, a un mero canovaccio per narrare la vendetta del chirurgo, sul quale Almodóvar lavora per costruire un teatro di personaggi indimenticabili. Occhi senza volto (1959) di Georges Franju, interpretato da Alida Valli, aveva lo stesso personaggio di un chirurgo ossessionato dall’idea di ricostruire il volto della figlia sfigurato in un incidente. Almodóvar cita la pellicola, ma non confeziona un film fantastico perché la sua cifra stilistica è il realismo permeato da situazioni a limiti del surreale. La musica di Alberto Iglesias è ottima, collegata alla narrazione, piena di rifermenti ai ritmi cubani e a brani storici degli anni Cinquanta.
Gordiano Lupi