Dal prossimo sabato sarà in scena alla Scala di Milano Der Rosenkavalier [Il cavaliere della rosa], l’opera più nota nata dalla collaborazione fra il poeta austriaco Hugo von Hofmannsthal e il musicista bavarese Richard Strauss. Pur tanto diversi per aspetto fisico e temperamento - diafano, riservato, sensibile il librettista; robusto, prammatico e poco diplomatico il compositore - i due artisti diedero vita nella prima metà del Novecento a un fecondissimo sodalizio, regalando al teatro operistico, nel corso di oltre un ventennio di lavoro comune, una serie di successi. Come testimonia tra l’altro il loro ricco carteggio, il loro rapporto non fu mai facile e non diventò mai una vera amicizia. Le tensioni non mancarono già durante la gestazione della prima opera, Elektra [Elettra], una rivisitazione in chiave moderna dell’omonima tragedia sofoclea, scritta da Hofmannsthal prima in forma di tragedia e poi rielaborata come libretto per la musica di Strauss.
Quale opera lirica Elektra fu rappresentata per la prima volta a Dresda nel 1909. Dopo questo copione cruento e dal linguaggio invasato, il musicista desiderava però un libretto di soggetto più leggero. Hofmannsthal era d’accordo sulla scelta di un tema giocoso, ma insisteva nel voler scrivere il testo prima di passarlo al musicista perché componesse la partitura. Solo quando si convinse che parole e musica dovevano procedere in parallelo, ossia nascere e crescere come un tutto unitario, si arrivò a quel capolavoro che è Rosenkavalier, dove testo e note aderiscono l’uno alle altre “come la mano al guanto.”
L’azione di questa Komödie für Musik [Commedia per musica], in cui si fondono suggestioni diverse - ispirate tra l’altro a Molière, a un’operetta francese dell’Ottocento e a incisioni dell’inglese William Hogarth - è basata, come spesso succede nell’opera di Hofmannsthal, sull’equivoco, ossia quella forma distorta di comunicazione che, se non impedisce, perlomeno ritarda la comprensione fra le persone. Ma anche in questa spumeggiante carnevalata alla fine tutto ritrova un suo ordine, alla trasgressione subentra la norma, e la vicenda si chiude con un felice compromesso che a una pacata adesione all’ineluttabile corso del mondo unisce il disincantato cinismo tipico degli ultimi splendori dell’Impero danubiano. Animata da quella asburgica volontà di “conciliazione” che tende a risolvere nella serenità ogni conflitto, la commedia armonizza alla fine quello che nella realtà risulta antitetico: ricercatezza e ingenuità, esperienza e innocenza, amore per l’attimo e desiderio di stabilità. I tre atti della commedia sono ambientati a Vienna intorno al 1740; ma la città dell’epoca di Maria Teresa corrisponde solamente in parte a uno spazio reale. Hofmannsthal, infatti, tende sempre a mescolare passato, presente e futuro, anche quando le indicazioni di regia segnalano una data precisa.
La trama dell’opera è semplice.1 *Il barone Ochs von Lerchenau, consumato donnaiolo, con una visita inattesa sorprende sua cugina, la marescialla, principessa Werdenburg, che è in compagnia del suo amante Octavian, da lei soprannominato Quinquin. Ochs chiede alla cugina di consigliargli qualcuno che possa fargli da padrino di nozze: ha infatti deciso di sposare Sophie Faninal, e per chiedere la sua mano vuole mandarle un “Cavaliere della rosa” che le consegni il fiore con cui suggellare la promessa di matrimonio. La marescialla gli suggerisce di rivolgersi ad Octavian, che nel frattempo si è travestito con gli abiti della giovane cameriera Mariandl, alla quale Ochs non manca di fare immediatamente la corte. Le cose, tuttavia, vanno in modo diverso dal previsto, perché quando consegna la rosa d’argento a Sophie, Octavian se ne innamora perdutamente, diventando gelosissimo di Ochs, che invece si consola prendendo un appuntamento con Mariandl. Alla locanda del loro rendez-vous, Ochs non trova però ad aspettarlo la graziosa cameriera, ma una signora vestita a lutto, ovviamente inviata a bella posta da Octavian, che dichiara di essere la moglie tradita del bellimbusto, subito accusato di bigamia. Messo alla berlina e fuori gioco il libertino, Octavian può unirsi alla sua Sophie; nulla ormai ostacola più il loro amore, che alla fine persino la marescialla benedice con malinconica superiorità. È lei, del resto, con la sua saggezza a condurre sapientemente la regia in questo intrico di incontri, separazioni e ricongiungimenti. Donna matura, la marescialla guarda alla vita con il disincanto di chi ha accumulato esperienze e delusioni e sa come tutto sia destinato a finire: cose, persone e sentimenti. Essendo assai maggiore d’età del suo amante, sa già prima che succeda che questi, prima o poi, la lascerà per una donna più giovane e più attraente, e che è quindi sciocco voler combattere contro il tempo e pretendere di opporsi al suo corso. Con la sua magnanima rinuncia ad Octavian, la marescialla permette che il giovanotto passi da una relazione provvisoria alla stabilità del matrimonio. Chi invece non impara nulla da questa vicenda, è il vanesio Ochs von Lerchenau, per il quale una donna vale l’altra, perché in fondo non ne sa amare nessuna. Egli incarna il trasformismo esteriore dell’avventuriero, che nonostante le molte liaisons, non è capace di legarsi a nessuno ed è condannato alla solitudine dalla sua irresponsabilità.*
L’opera, presentata la prima volta a Dresda il 26 gennaio 1911, ottenne immediatamente un successo enorme, che subito si ripeté a Monaco e a Berlino. Proprio alla Scala, invece, essa, a tutta prima, incontrò qualche difficoltà, perché al suono del walzer, considerato di stile basso e popolare, il pubblico manifestò di non gradire quella che gli pareva una caduta di stile; poi però, dopo il terzetto del III atto, si ravvide e accordò all’opera applausi scroscianti. Nel secondo dopoguerra il Rosenkavalier è tornato più volte alla Scala, sempre affidato a bacchette di prim’ordine: nel 1952 Herbert von Karajan non solo lo diresse, ma ne firmò anche la regia; a dirigerlo nel 1961 fu Karl Boehm, nel 1976 toccò a Carlos Kleiber, quindi, dopo una lunga pausa di oltre un quarto di secolo, fu il turno di Jeffrey Tate nel 2003. A dirigere questa nuova edizione milanese (a cent’anni dal debutto) sarà Philippe Jordan che, dopo la prima, replicherà per altre sei serate.