Una volta ho assistito al monologo teatrale di una simpaticissima signora milanese, che aveva esercitato l'arte veterinaria, tutto centrato su vizi e tic di un commercialista. Il commercialista come topos esistenziale. La pièce era esilarante, caustica, arguta in sommo grado. Del resto l'autrice-attrice era stata sposata con un commercialista, quindi aveva avuto materiale d'osservazione a iosa. Aveva infine sfruttato l'esperienza diretta sublimandola con creatività.
Un mestiere non facile, certo, quello del commercialista, stante un panorama normativo in continua evoluzione. Del resto nulla è facile nel mondo in cui ci è toccato vivere. Una professione arida, fatta di cifre, conti e bilanci? Un luogo comune, al pari di quelli che infestano e investono altre professioni (vedi l'offensivo, superficiale e massimamente iniquo aggettivo “fannulloni” appioppato ai dipendenti pubblici). Poi conosci Francesco Zappia e capisci che è meglio eliminare dal proprio bagaglio pregiudizi di sorta.
Francesco Zappia fa il commercialista e scrive. Trentasettenne reggino che ha accettato il caldo abbraccio di Milano, ha un ambizioso progetto di vita, «incentrato sullo sviluppo di esperienze e passioni, tra cui quella che, subito dopo l'Università, lo ha legato alla scrittura creativa, alla quale si avvicina quasi per caso, per dare “voce” ad un istinto, che ha considerato nascosto ed inespresso per troppo tempo». Ed è così che il giovane commercialista, il professionista in fieri, trova il tempo e il coraggio di cercare se stesso, rimettendo in discussione ogni scelta (e non scelta) sino ad allora fatta. Perché il dilemma è sempre quello fra “essere o avere” e la sua risoluzione passa per un viaggio interiore che deve passare per un viaggio anche fisico, «alla volta di un piccolo paese di montagna, in un casolare sperduto», in un fantastico “Ateneo di vita”. Un itinerario dentro le proprie pieghe, dubbi irrisolti, domande inevitabili, dopo il quale c'è l'abbandono dell'avere per l'essere o, almeno, una consapevolezza profonda, un punto di arrivo per una nuova partenza.
Dalla cella della prigione dei soldi facili e lussi e discoteche e pub e ogni altra invenzione ludica e, fondamentalmente, inutile alla crisi d'identità che smonta, chiarisce e feconda, a l'ultimo frammento della coscienza, che poi è il titolo del suo romanzo (pp. 112, Falzea Editore) in cui scoperta e disvelamento avvengono attraverso pezzi di carta ingialliti, i tranquilli riti di una comunità solidale e i piccoli misteri disseminati dal/nel convivium, frasi incomplete che costringono a ricomporre il senso della propria vita, della vita, (ri)stabilendo le giuste priorità.
Cos'è l'avere: «Grandi e invadenti nuvole grigie mi incupirono tanto da far disperdere quel senso di quiete di cui, sino a poco prima avevo goduto. Era come se l'essere fosse improvvisamente sparito, scacciato via da quello che mi era apparso come uno sporco conquistatore: l'avere. Dalle nuvole cadde pioggia contaminata e pesante ed i ricordi dei miei trascorsi, che in pochi istanti e alla velocità della pioggia stessa piombarono sulla mia memoria, conservavano un cattivo, soffocante sapore di terra. Non mi ci volle tempo per capire il significato dell'avere. Riaprii gli occhi come a volermene bruscamente liberare e ciò accadde grazie all'essere incessante e pacato dell'aperta campagna che, ancora, risplendeva dinnanzi al mio sguardo».
Che cos'è invece l'essere? «Lo identificai nella semplicità, nello splendore e nell'accogliente grandezza di ciò che potevo vedere con i miei occhi... Esistere non era cosa da poco perché tutto ciò che mi circondava esisteva, ma odorava di immensa eternità. Un giorno colsi da terra un fiore giallo e dai petali di velluto; gli rivolsi quella domanda come se fosse un vero e proprio interlocutore. Il suo profumo inebriò il mio olfatto giungendomi puntuale come la risposta che aspettavo. Fu esaustiva e finalmente compresi il significato dell'essere. Così, lo identificai con la trasparente purezza di quell'essere». Una prosa dai tratti lirici, come l'ardente luce e semplicità del sole, come l'amore che travolge felicemente le più ottuse barriere.
Così si può vivere e fare i commercialisti e interagire col mondo intorno, con le persone e i compagni di ventura, senza mai dimenticare l'anima, sviluppandosi e ogni attività intraprendendo con energia e armonia, come per lo stesso ristorante da Francesco Zappia aperto in società con un altro Francesco, "Mucca capricciosa" (via Cesare Beruto 13, Milano, zona Lambrate, tel. 02 84562591), dove la fragranza del pane, la cura della pasta, l'aroma della birra artigianale, il sale rosa e quello nero vulcanico (quasi avverti la rarefazione himalaiana o l'ondoso profumo delle Hawaii), il naturale segreto del liquore alla liquirizia, sono lo specchio di quell'armonia e serenità che Francesco Zappia ha trovato e continua a cercare.
Guardo ancora la copertina arancione de l'ultimo frammento della coscienza e vedo La danse di Henri Matisse: esseri uniti dalla limpida, quieta, esultante ed esaltante coscienza panica del mondo, da cui male e vergogna sono stati banditi, viatico all'utopia. L'allegria che coglie ha il sapore della consolazione e della speranza.
Alberto Figliolia