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Gianfranco Cercone. “Cose dell’altro mondo” di Francesco Patierno: un’ipotesi sull’immigrazione
16 Settembre 2011
 

Secondo un’antica teoria, ogni racconto parte da un’ipotesi. Nel caso di Cose dell’altro mondo – un film diretto da Francesco Patierno, presentato all’ultimo festival di Venezia, nella sezione “Controcampo italiano” – l’ipotesi, fantastica, è delle più clamorose. In una cittadina del Veneto, prendendo alla lettera le invettive che un industriale del luogo lancia quotidianamente contro gli immigrati da una televisione privata, tutti costoro spariscono. Le conseguenze sono: le fabbriche – compresa quella dell’industriale razzista – si trovano sguarnite di operai e non funzionano più. Non si trova più mano d’opera a basso costo, perché gli italiani non sono disposti a lavorare alla stessa paga degli immigrati. Gli anziani sono abbandonati a loro stessi, perché non si trovano più badanti. Anche i più ricchi sono costretti a occuparsi personalmente dei lavori di casa, perché gli italiani non vogliono fare nemmeno i domestici.

In breve: senza gli immigrati, il paese è in ginocchio. Tanto che il sindaco è costretto a improvvisarsi amico degli immigrati, e a chiedere che un discorso di scuse venga letto in televisione dall’industriale.

Si sa che il cinema è fatto apposta per rendere visibili come realtà effettive, scenari fantastici, catastrofici come idilliaci. Ma il film di Patierno non si abbandona a un gioco dell’immaginazione. L’ipotesi fantastica è formulata soltanto per rendere evidente una verità: gli immigrati sono necessari alla nostra economia e alle nostre abitudini di vita.

Qualcuno potrà obiettare che la sapeva già. Ma poiché ancora non è una verità evidente a tutti e il cinema è un linguaggio popolare, io credo che il film di Patierno può servire a diffondere una consapevolezza. Certo chi si aspettasse sviluppi fantasiosi, romanzeschi, dell’ipotesi di partenza, resterebbe deluso.

In compenso, il film presenta i ritratti di due personaggi che mostrano come l’autore, e gli attori, abbiano una mano fine.

Il primo è l’industriale, interpretato da Diego Abatantuono. Sarebbe stato facile cadere nella caricatura più grossolana. L’uomo è fanfarone, volgare, ignorante, facile a proclamare come verità indiscutibili principi che egli stesso smentisce nella vita di ogni giorno. Così ad esempio fa una tirata contro la prostituzione delle donne africane, ed egli stesso ha una relazione con una prostituta nera. Ma ecco: tanto la moglie quanto la prostituta - la prima con più asprezza, la seconda con più indulgenza - lo vedono lucidamente per quello che è: un eterno bambino; un connotato che contribuisce a “umanizzarlo” (senza che per questa sia attenuato il giudizio politico sul personaggio, che è una evidente condanna).

Il secondo ritratto è un poliziotto – interpretato da Valerio Mastandrea – la cui fidanzata lo ha lasciato per un ragazzo nero, dal quale ora attende un bambino. Il poliziotto – un tipo un po’ torvo, che esibisce con troppa disinvoltura la pistola, ma senza mai sparare un colpo – soffre dentro di sé tutti i tormenti della gelosia, i complessi di inferiorità sessuale rispetto al nero, e le tentazioni di abbandonarsi al razzismo, un razzismo in questo caso motivato da ragioni tutte private. Ma alla fine, come risultato di una dura lotta interiore, riesce a non tradire le proprie convinzioni antirazziste, e accetta addirittura di fare da padre al bambino della propria ragazza, quando il vero padre sparisce dal paese insieme agli altri immigrati. È un ritratto contraddittorio e per questo vivo; umoristico, quanto il precedente era comico.

 

Segnalo che di Patierno è in uscita in DVD, in libreria – edito da Sperling & Kupfer – il documentario: Giusva. La vera storia di Valerio Fioravanti.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 14 settembre 2011)


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