I suoi toni sono definiti “maturi” e “metallici, attraversati da un vuoto che entra in conflitto con la persistente fiducia in un senso, col desiderio di stabilire legami”. Una descrizione che perfettamente si attaglia alla poesia di Gabriel Del Sarto. Dopo l'opera d'esordio I viali (2003), Sul vuoto è l'ultima, recente, antologia di versi del 39enne Del Sarto, edita da Transeuropa nella Collana 'nuova poetica' (pp. 80, euro 9,90), sempre attenta alle novità che ribollono nel calderone della società e alla qualità dei prodotti letterari che ne interpretano idee, istanze e disagi. (I testi della sezione Meridiano ovest sono stati pubblicati in una versione precedente, nella plaquette omonima uscita sempre per Transeuropa edizioni nella Collana 'Fuori Commercio' nel 2008).
Sul vuoto è un titolo quasi programmatico. Come si fa a discettare del vuoto? O nel vuoto? Del resto l'homo sapiens sapiens contemporaneo è pieno di vuoti/o, che tenta disperatamente di colmare con i più vari esercizi, diversivi e diversioni. Quell'uomo che si muove in “periferie-mondo”, in luoghi-non luoghi per scomodare l'etnologo-antropologo Marc Augé, stranieri a sé stessi e troppo abituati a sé stessi, fra “interni illuminati” e “raccordi autostradali”, fra “persone fragili” e la “precarietà normalizzata delle nostre latitudini”.
I ricordi nella luce obliqua
dalla porta a vetri, un vento leggero e un ritorno
di senso, molecolare,
e quel pulsare dei tigli, mentre parlavamo
dei palazzi di fronte,
immaginando le vite elementari
che contengono, come fossero lontane.
Adesso restiamo ognuno col suo monologo
la versione della storia,
e la luna,
nelle sere di maggio, passa ancora sulla tua casa,
sono ore e ombre,
tenere a volte.
Prego, riflettere su quelle “vite elementari... come fossero lontane”. C'è tutto quel che siamo e che non sappiamo scorgere. L'infinita distanza che ci separa, la costruzione e l'artificio della distanza, quando invece tutto sarebbe così semplice. Perché allora il caos che ci sbalestra e disossa? Perché derive, indifferenze e disconoscimenti della comune umanità?
Quel déjà vu che ci coglie, Certe sere... «il freddo che sento/ nella folla dei palazzi e nel tratto/ sceso dall'auto fino alla tua porta./.... È tardi/ e la vista del citofono grigio/ è un segno che rende/ te più reale, come la stanchezza/ che avvolge i desideri e i gesti./... La luce del frigo, l'insalata/ mista nei piatti, le vicissitudini del giorno/ restano fra noi, si mescolano/ ai gesti e ai corpi, e non so se sai/ che comprendo la normalità di tutto questo/ solo adesso, e che non mi basta».
La poesia di Del Sarto non si nutre di aggettivi roboanti, non ha accenti enfatici: è lineare, cruda, come qualcosa di usuale, come un gesto quotidiano, che però ti stupisci a fissare come fosse stato compiuto la prima volta, non avendone mai considerato in precedenza la necessità, l'essenza, la sua stessa eccezionalità nel panorama esistenziale. Allora si produce un buco nel senso compiuto, nel vivere prefissato, e da tale squarcio intravedi il vuoto. Da Compleanno: «Alla fine della festa, fra gli avanzi/ di un compleanno/ la vanità è solo più evidente e la panna/ che si decompone della torta sul tavolo/ comprende la nostra solitudine. Fuori ancora/ possiamo osservare l'infinita/ matematica, luce e acciaio delle galassie,/ come una partecipazione connessa alla gioia./ Ci sono questi cieli lunghi/ nelle sere e vedi anche tu/ oltre il verde denso dei monti, questo/ spazio immenso, la pulizia/ precisa degli astri, la presenza possibile dell'anima/ in questo trovarsi/ e come nasce dolore e speranza/ da questo nessuno e questo niente?». “La presenza possibile dell'anima”... Consolatoria peraltro è “la pulizia/ precisa degli astri” in un non casuale enjambement.
Vite rinchiuse, ma nella tana in cui si giace intrappolati... «Una notte come questa, di questa/ metropoli, nel caldo/ felpato delle stanze: potremmo/ essere ovunque, forse con un figlio. Come siamo/ noi, in questo silenzio, ascoltando il lieve/ fruscio dell'acqua nei radiatori centralizzati, i respiri – i miei, i tuoi».
Sì, è vero, la lezione è questa: “potremmo/ essere ovunque, forse con un figlio”. E potremmo, se volessimo, udire anche il rumore delle foglie che crescono, il respiro dell'oceano, la voce degli astri. Potremmo snidare l'amore che si snoda nelle pieghe del giorno. Pur in bilico sul vuoto. O, forse, proprio perché coscienti di tale status.
Alberto Figliolia