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Nicola Vacca. La cultura dell’apparenza 
Una riflessione in forma di elzeviro
Janù, studio per manifesto MadPride 2011
Janù, studio per manifesto MadPride 2011 
10 Settembre 2011
 

«Non viviamo una crisi economica, è una crisi morale, per questo sarà tanto difficile uscirne». José Saramago, premi Nobel per la letteratura, qualche giorno prima di morire pronunciò queste parole. Un lascito spirituale per la nostra civiltà in agonia. Parole giuste di un grande intellettuale su cui vale la pena aprire una riflessione. Quando la morale entra in crisi una società non è più in grado di generare intelligenza e diventa sempre più difficile trovare una via d’uscita diversa dalla decadenza.

L’intelligenza è un bene raro nella nostra epoca. Non se ne trova in nessun luogo. È proprio così. Se mi guardo intorno non vedo nessuno che si legge dentro. Ci affatichiamo per costruire la società dell’apparenza. Il culto dell’immagine a ogni costo è quello che conta. Tutto quello che deve emergere è quello che non siamo.

«Devo fabbricarmi un sorriso, munirmene, mettermi sotto la sua protezione, frapporre qualcosa tra il mondo e me, camuffare le mie ferite, imparare, insomma, a usare la maschera».

Cioran guarda negli occhi la maschera che non riesce a infilarsi e condanna la viltà di coloro che la indossano con estrema facilità perché hanno paura di mostrarsi così come sono.

Oggi quasi nessuno riesce a fare a meno della propria maschera. Si ha talmente paura di farsi vedere a cuore nudo dall’altro, mostrarsi nella propria schiettezza, aprirsi con fiducia, farsi capire per quello che realmente si sente e si prova. Tutto nasce da questo complesso di timori. Siamo soltanto maschere che non hanno il coraggio di essere.

Non ci interessa l’essenza delle cose, ma il loro apparire. Preferiamo amarci male, che mostrare il volto vero dei nostri sentimenti. Sui luoghi di lavoro, come nelle relazioni sociali è più comodo indossare un’esistenza che non sia la nostra. Mostrare la propria con i suoi difetti e le sue fragilità è a dir poco sconveniente.

Siamo maschere che mentono, fedeli seguaci dell’apparenza e delle convenzioni. Abbiamo paura di conoscere noi stessi, e soprattutto riteniamo pericoloso che gli altri possano conoscerci per quello che in realtà siamo.

Indossando la maschera siamo gli artefici del grande inganno che mistifica tutto. Che fa diventare il tutto un cosmico niente.

La maschera uccide noi stessi e il mondo. Ma preferiamo non abbassare la guardia, non mostrare quello che siamo capaci di fare con il nostro cuore messo a nudo. Gli altri non devono sapere come siamo fatti davvero dentro. Dobbiamo mentire per guadagnarci un posto al sole nella società che giudica dalle apparenze.

Una maschera tira l’altra. Siamo un’inciviltà di maschere che si consuma nella menzogna.

Così tutto ci sembra perfetto, fabbrichiamo un sorriso tra il mondo e noi stessi, mettiamo sempre la parte peggiore di noi, che è il modo migliore per essere accettati in società.

Preferiamo essere uno nessuno e centomila, piuttosto che vivere un giorno di solitudine insieme alla parte più intima di noi.

«Come mai ci sono cosi poche persone perbene? Ne ho abbastanza di questi abbozzi di umanità, di queste caricature, di questi esseri riusciti a metà».

Cioran, ancora una volta, pugnala con le sue parole questo nostro tragico tempo dell’apparenza, nel quale difficilmente avremo il coraggio di rinunciare alla maschera.

È sufficiente tutto questo per affermare che una civiltà sente vicina la propria fine. Direi proprio di sì. Chiamate il prete, è ora di celebrare il funerale del nostro tempo che si è spento perché nessuno ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.

 

Nicola Vacca


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