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Giulia Crivellini. Chiesa e Ici: chi ne è (davvero) esente?
06 Settembre 2011
 

Sono 140 mila gli utenti della rete che in questi giorni reclamano un taglio netto ai privilegi di cui gode il Vaticano. Abolire le agevolazioni su Ici e Ires, dimezzare dell’8xmille; per cominciare. I Radicali ne hanno fatto una battaglia decennale, culminata sabato con l’illustrazione in Senato di un emendamento volto ad eliminare l’esenzione dell’imposta comunale sugli immobili (Ici) per le attività commerciali gestite da enti ecclesiastici. Persino l’Unione Europea è intervenuta nel 2010, aprendo un’indagine contro l’Italia per violazione delle norme sugli aiuti di Stato ed esortandoci a provare l’inesistenza di un regime di distorsione nei fatti della libera concorrenza. Nel frattempo, sembriamo non esserci accorti dei moniti europei, governati peraltro da una classe politica che continua ad assistere in silenzio tanto ai moti della rete, quanto agli atti dell’Aula.

Argomento tabù, privilegi intoccabili, battaglia persa in partenza. Quando c’è di mezzo il Vaticano, queste sono le risposte. Tuttavia, siamo davvero certi che l’area di intangibilità che circonda i rapporti tra Stato e Chiesa sia davvero impenetrabile? A volte si tratta, più semplicemente, di render un po’ più chiara l’interpretazione di leggi oscure (o, meglio, di facile aggiramento!) e i termini di rispetto delle stesse. Prendiamo l’imposta ICI: chi, per legge, ha diritto al beneficio dell’esenzione? Il decreto legislativo del 1992, che ha introdotto la suddetta tassa, prevede l’esenzione totale per gli enti che esercitano esclusivamente determinate attività (di assistenza, sanità, insegnamento, ricezione, culto...). Ma è davvero sufficiente inserire una cappella nella struttura o dichiarare di ospitare studenti per vedersi l’esenzione assicurata? Certo che no, almeno per legge. In varie occasioni, infatti, la Corte di Cassazione ha chiarito come, ai fini del riconoscimento dell’agevolazione, non sia rilevante l’attività indicata dall’ente, bensì quella che viene effettivamente svolta negli immobili.

Dichiaro o indico sul sito internet di essere struttura con funzione di “accoglienza sacerdoti di passaggio” o di “pensionato studenti”? Se poi accolgo chiunque ne faccia richiesta, offrendo magari pacchetti colazione-inclusa, l’Ici toccherà pagarla. La cosa interessante, poi, è che, proprio in un periodo in cui tanto si parla di caccia all’elusione, ci si dimentica come sia sempre onere del soggetto che fa valere il diritto ad un’agevolazione tributaria fornire la prova delle condizioni concrete per godere dell’esenzione. Trattandosi di regime di eccezionalità, è l’ente interessato a dover provare che nei fatti svolge esclusivamente l’attività, ad esempio, di accoglienza sacerdoti; non il Comune a dover fare le pulci a posteriori!

Certo non è sempre facile individuare quali siano nello specifico le attività meritevoli di usufruire del regime di favore. Ma leggere le norme aiuta. Un immobile che svolge attività didattica, come un’università, ad esempio, deve garantire l’accesso a tutti alle medesime condizioni; chiedere il certificato di battesimo come requisito d’accesso (cosa che all’Università Cattolica di Milano avviene) fa, o dovrebbe far venire meno il diritto all’esenzione. Così come le attività di “housing sociale” indirizzate non esclusivamente a bisogni sociali (di studenti, di famiglie di indigenti...), ma estese ad un pubblico indifferenziato. Se il legislatore non è stato d’aiuto in termini di chiarezza, la strada dell’inganno demagogico del “sono tutte opere essenziali” è scelta peggiore. E grave. Non solo perché aggira principi di giustizia fiscale a danno della società intera (depotenziando peraltro gli enti che davvero svolgono opere di carità e assistenza), ma anche perché finisce con lo svilire quel principio di legalità dal quale ci stiamo pericolosamente allontanando. Se certe parole oggi restano un tabù, che almeno non lo diventi anche il rispetto delle regole.

 

Giulia Crivellini

(da Notizie Radicali, 6 settembre 2011)


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