La recente diatriba sui privilegi ecclesiastici in materia fiscale è una vera e propria bufera che sembra non conoscere requie; lo shock è enorme. È appena caduto uno dei più grandi tabù della società italiana. Si è cominciato a discutere dell’indiscutibile: i privilegi fiscali della Chiesa Cattolica. D’altronde, si sa: quando si versa in un (duro) periodo di austerity non è bello sapere che esistono “sacri” (è proprio il caso di dirlo) privilegiati; l’astio raggiunge livelli esponenziali se sono proprio i privilegiati in questione a lanciare anatemi e a tuonare contro l’evasione fiscale, dall’alto di un pulpito sempre più ipocrita e sempre meno solenne
Liquidare l’intera faccenda come un mero scontro all’arma bianca tra laici(sti)/cattolici e/o irridere l’intero ragionamento di fondo alla stregua “vetero-ottocentesco” (o post-mazziniano, decidete voi) è un errore fatale e gravissimo. Perché rappresenta un comportamento piacevolmente anomalo, per gli italiani; essi, anziché schivare il tabù, lo affrontano e ne discutono. E proprio per questo motivo è bene dire sin da subito: i privilegi ecclesiastici esistono. E meritano di essere portati alla luce della pubblica opinione e di essere discussi, tabù sociale o non tabù. Sia chiaro: a volte sono logici e ragionevoli in virtù delle opere assistenziali, caritatevoli e altruistiche compiute dalla Chiesa Cattolica (come dalle altre organizzazioni religiose e laiche). Altre volte (più spesso) rasentano la truffa e l’ingordigia.
La questione più delicata riguarda l’ICI. Il decreto legislativo del 1992 che introdusse la suddetta tassa prevedeva, già a suo tempo, l’esenzione totale per gli immobili utilizzati a fini non-commerciali e destinati allo svolgimento di pratiche culturali, purché non si tratti di riti contrari al buon costume e tale destinazione abbia carattere esclusivo. La cosa tuttavia si complica se parliamo di immobili che svolgono anche attività commerciale; l’attuale normativa (2006) prevede, infatti, che siano passibili di esenzione unicamente quegli immobili la cui finalità non sia “esclusivamente commerciale”. Ed è proprio quel maledetto ed ambiguo avverbio – esclusivamente – a piantare i semi dell’inguistificabile. Alberghi, strutture turistiche, scuole, negozi, cinema. Interi palazzi con appartamenti in affitto. La lista è lunghissima, la formula magica la stessa: basta inserire una cappella, una madonnina, un altare, all’interno (o anche all’esterno) della struttura, e l’esenzione è assicurata.
Capite la perversione del meccanismo e i suoi mortali effetti? Effetti che finiscono per ripercuotersi letalmente su coloro (laici) che (laicamente) le tasse le pagano, pur svolgendo le medesime attività; essi subiscono (oltre all’iniqua tassazione) sulla propria pelle i pesanti danni della concorrenza sleale (perché questa è) dei sacri privilegi che trascendono la dimensione religiosa e abbracciano attività di carattere squisitamente commerciale. Non è un caso se la legge 2006 targata Governo Prodi (quella del 2005 ad opera del Governo Berlusconi era anche peggio, visto che prevedeva l’esenzione tout court) sia attualmente sotto l’attento esame della Commissione Europea per sospetta violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza.
Concorrenza sleale: ecco di cosa stiamo parlando e per che cosa dobbiamo indignarci; il resto è populismo. Non è un caso che i Radicali stiano battendo ripetutamente e ostinatamente il tasto su questo punto, affermando che non si sognano minimamente di volere far pagare l’ICI agli edifici di culto o alle mense della Caritas, bensì a quegli immobili che svolgono attività commerciale godendo di esenzioni irragionevoli e ingiustificabili.
Quanto si ricaverebbe correggendo questa stortura e ripristinando un po’ di sana concorrenza? Difficile dirlo; pare che la perdita netta (e il risparmio annuo per la Chiesa) si aggiri spannometricamente intorno ai due miliardi di euro, anche se le stime più prudenti indicano una cifra assai minore, ma comunque elevata (non meno di ottocento milioni di euro).
Poi ci sono questioni meno delicate perché trasudano ingiustizia e gridano vendetta. Il finanziamento pubblico alle confessioni religiose (l’8×1000) istituito con legge 222 del 1985 pare (a una prima – e pigra – analisi) rappresentare un perfetto esempio di democrazia; ogni contribuente destina – su scelta personale – una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul proprio reddito a una delle sei confessioni religiose previste (Chiesa Cattolica, Tavola Valdese, Unione delle Chiese cristiane avventiste del Settimo giorno, Assemblee di Dio, Chiesa Evangelica Luterana, Unione Comunità Ebraiche Italiane) o allo Stato Italiano. Del 40% dei cittadini che esprimono una scelta, l’80% indica la Chiesa Cattolica (un terzo dei contribuenti complessivi). È fatta ovviamente salva la facoltà di non esprimere una scelta.
Dove sta, dunque, il problema? Nel fatto che le scelte inespresse non sono esautorate dalla ripartizione; quelle quote vengono comunque ripartite a favore delle confessioni religiose, seguendo proporzionalmente le scelte espresse. La funzione dell’8×1000 è infatti meramente consultiva; lo Stato “consulta” i propri cittadini per decidere a chi assegnare l’otto per mille dell’intero e complessivo gettito IRPEF. Con buona pace di quei 60% contribuenti che non hanno indicato una scelta e che si vedono – a loro dispetto – ripartiti i propri 600 milioni di euro. Non ci vuole molto a capire che tale disciplina si è rivelata estremamente iniqua ed estremamente favorevole alla Chiesa Cattolica, e continua tutt’oggi a persistere, nonostante la palese mutilazione del potere decisionale del singolo contribuente siano stati avanzati molti dubbi sulla ragionevolezza e la legittimità costituzionale della stessa.
Infine, ci sono quelle agevolazioni dal vago sapore (ma per davvero) clerical-reazionario. E che non vale nemmeno la pena commentare, perché si commentano da sole: fornitura idrica gratuita alla Città del Vaticano. Pagamento statale per l’insegnanti di religione (cattolica). Esenzione dei dazi doganali; esenzioni dell’imposta di bollo per le pubbliche affissioni se in calce al manifesto vi è scritto “Avviso sacro”. Dulcis in fundo, gli italiani (avete capito bene: italiani) che lavorano presso una struttura vaticana non pagano nemmeno un cent di IRPEF.
Questi sono i privilegi della Chiesa Cattolica (probabilmente ce ne sono altri, ma questi sono i più noti); in moltissimi casi, vere e proprie fattispecie di concorrenza sleale che non trovano altra ragione se non nello storico (e così “italiano”) regime di favore di cui essa ha sempre beneficiato nei confronti dello Stato. Non si parla di punire gli enti ecclesiastici o di combattere la Chiesa; si parla – più semplicemente – di cancellare privilegi anacronistici, deleteri, irragionevoli, e innaturali. L’esenzione dall’ICI dovrebbe essere infatti concessa per centri di accoglienza, biblioteche, chiese, santuari, oratori. Non a cinema, alberghi, impianti sportivi, scuole e compagnia danzante; basterebbe un semplice emendamento che affermasse quanto appena scritto. Basterebbe. Come basterebbe abolire l’attuale meccanismo dell’8×1000 e incentivare le donazioni private (già attualmente deducibili fino a 1.032,91€) alle varie confessioni. Basterebbe. Eppure non si capisce perché tutto questo non viene fatto e perché il mondo politico (Radicali a parte) si limiti a mere difese d’ufficio del “sacro Magistero” o a moine assai poco convincenti e dallo spiccato sapore democristiano.
Ho sentito anche che non bisogna distrarsi; che la vera battaglia è quella contro lo Stato e la spesa pubblica. Prima mettiamolo a dieta, poi pensiamo a riformare l’intero regime tributario e privilegi fiscali del clero e storture da essi provocati inclusi. È vero. Anzi: è verissimo. Tutto questo rischia di diventare l’ennesima rissa “di classe” nel pollaio, senza vincitore e vinti e senza riflessione. Ma qui non stiamo parlando solo di (tanti!) soldi e di concorrenza (e sarebbe quanto basta per intervenire senza nemmeno passare dal “Via”); il discorso è immensamente più profondo e non può essere schivato; è una storia che riguarda le ipocrisie, le irresponsabilità, le pruderie e le reticenze di un popolo che non si è mai sentito cittadino, ma sempre suddito. Di tutto questo, bisogna parlarne. Senza forche, senza odio, senza populismi. Ma bisogna parlarne. L’ipocrisia è durata troppo a lungo.
Michele Dubini
(da Libertiamo.it, 30 agosto 2011)